Ne hanno fatto materia molliccia, ma Clay era un gran figlio di puttana
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La vera barriera generazionale non è il ’68, forse, ma il ’64, l’anno in cui uno sconosciuto che ballava sul ring e sembrava un damerino di un quintale, insultò a morte e stroncò il campione mondiale dei pesi massimi Sonny Liston. Avevo tredici anni ma nella nebbia del ricordo in bianco e nero e della bassissima definizione catodica tutto è ancora presente
Mohammad Ali contro Henry Cooper. E' il 1966 (LaPresse)
di Giuliano Ferrara | 05 Giugno 2016 ore 06:00 Foglio
Ne hanno subito fatto il solito materiale molliccio, cartilagine delle buone intenzioni e niente osso, no cattiveria, ma Cassius Clay, poi Mohammad Ali, fu un magnifico figlio di puttana. La vera barriera generazionale non è il ’68, forse, ma il ’64, l’anno in cui uno sconosciuto che ballava sul ring e sembrava un damerino di un quintale, insultò a morte e stroncò il campione mondiale dei pesi massimi Sonny Liston, che ne morì qualche anno dopo, passando per una rivincita fasulla finita al primo round, inseguito da accuse di combine e di mafia. Avevo tredici anni ma nella nebbia del ricordo in bianco e nero e della bassissima definizione catodica tutto è ancora presente. Sembrava una finta, e il sospetto è notoriamente l’anticamera della bellezza in ogni gioco pesante, maschio, primitivo, rituale, cattivo, funebre. Ma per noi adolescenti educati in un dopoguerra costruttivo, rispettoso delle gerarchie e delle ideologie dominanti, in una scuola con la divisa a grembiulino e fiocco bianco, la vera partita era quella condotta da Clay al peso, nelle conferenze stampa, fuori e dentro il ring prima del gong inaugurale: era la partita dell’ego esploso, della volontà di potenza nel senso meno filosofico del termine, più grezzo e negativo, era la sequela di insulti, intimidazioni, minacce, la configurazione chiara di un’anima nemica da fare a brandelli prima di colpirne il corpo.
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Con il crollo del Terzo Reich il superomismo irregimentato, la tremenda comunità di destino del popolo, del Volk, era stato sepolto nel Bunker della Cancelleria. Il canto di guerra non era più ordinato, possente, corale e sterminatore. Sono io, Cassius, non la Germania, che mi metto sopra tutti con la mia invincibilità. Ora dall’America multirazziale, paese della vittoria e dei nuovi costumi, arrivava il soffio acido, velenoso, elettrico di una sfida moderna in cui la personalità del singolo metteva le ali, puntava diritto al cielo dello star-system, esibiva la sfida come un concentrato di sé e niente spazio per l’altro, niente fair-play, solo botte, stile, spettacolo, gioia sovrumana e tanti soldi. La boxe aveva incubato tutto questo, era sempre stata, per come ce la raccontava il cronista principe Giuseppe Signori, che rispettavamo come un oracolo e scriveva sull’Unità, la scuola della sfida esistenziale, dell’individualismo protetto e scortato dal gruppo, altro che fare squadra, il fascino del pugilato era la solitudine degli avversari e la irredimibilità dei colpi che a un certo punto non si restituiscono più, come al tennis o al ping pong, e provocano l’atterramento, il knock-down, il conto alla rovescia e il knock-out, il risultato per eliminazione diretta che supera ogni finzione arbitrale.
Cassius Clay divenne letteralmente mitico perché la sua etica del combattimento non prevedeva la possibilità di fare prigionieri, e questo fin dalla battaglia di perfidie idiomatiche in cui l’annientamento dello sfidato era apparentemente solo una festa arcigna di parole assassine. Non eravamo abituati. Applausi, urla, abbracci, umiliazione di chi ha perso, braccia levate, bottino, tutto questo era la boxe di sempre, ma non in quel modo incandescente, non violando le regole non scritte del genere, non in quella forma atrocemente definitiva. Poi è venuto, fatalmente, il Cassius Clay edulcorato dal no alla guerra, il convertito Mohammad Ali che metteva al servizio dei miti panafricani le sue ultime sfide con Foreman, è venuto il Mandela dei guantoni, l’uomo sorridente e eternamente bello, bellissimo, che coloriva con la sua neraggine tutte le sfumature del mondo bianco. Poi è venuto il sequestro hollywoodiano della grande metafora: danza come una farfalla, pungi come un’ape; poi la sovrapposizione con il dottor King, e una lunga scia di decoroso oblio connotata dalla malattia, dalla sottomissione al tempo, dalla trasformazione avvilita dell’eroe e di noi tutti suoi tifosi invecchiati e grati. Ma il Cassius Clay che merita il più bel ricordo è quel bambino maleducato, testosteronico e ballerino, che batteva l’avversario prima di tutto insultandolo senza rimedio e annullandolo come parte di un brutto incubo, in nome del celebre sogno americano che si universalizzava come “dittatura dell’Io e delle sue voglie”. Chi è cresciuto con gli abatini di tutte le latitudini farà bene a ricordarsi non di un’icona del perbenismo ideologico, e magari della sportsmanship, ma di quella sublime chiazza di volontà distruttiva, corrotta e corruttiva allo stato puro, che ebbe ragione dei giganti muscolari della montagna e li mise alle corde.