A 30 anni dal maxiprocesso
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Limitarsi a coppole e lupare fu una scelta sicuramente saggia, probabilmente necessitata, e su questo Caselli ha ragione. Ma quella scelta fu il limite del maxiprocesso
di Massimo Bordin | 14 Febbraio 2016 Foglio
Nel trentennale del maxi processo di Palermo è bene ricordare tutto, ha ammonito ieri sul Fatto Gian Carlo Caselli. Il suo ricordo completo propone come chiave di lettura la disgregazione dall’alto del pool antimafia nel momento in cui se ne celebrò la vittoria giudiziaria con il processo che il gruppo di magistrati guidati da Giovanni Falcone aveva reso possibile. Invece di consolidare una struttura che aveva dato risultati, essa venne dispersa. La spiegazione di Caselli circa il motivo di tanto ostracismo consente una riflessione non solo celebrativa. “Il pool ebbe vita tranquilla finché si limitò a coppole e lupare” ha scritto Caselli, aggiungendo che in fondo nel grande processo i soli cugini Salvo e Vito Ciancimino erano “colletti bianchi” di un qualche spessore. Vero, soprattutto considerando che Buscetta iniziò a parlare nel 1983, quattro anni dopo il cosiddetto finto rapimento di Sindona e l’omicidio del procuratore Gaetano Costa avvenuto nel 1980. Costa conduceva un’indagine che lo portò a un passo dall’incriminazione di Sindona per i suoi rapporti coi mafiosi Bontate e Inzerillo. e per questo fu ucciso. Quella vicenda è il cuore del rapporto fra mafia e potere politico di quegli anni. Nel processo c’è traccia di una sola domanda a Buscetta su Sindona. Il pentito rispose: “I segreti di Sindona sono una piuma rispetto a quelli di Bontate” e, pronunciata la frase con tono oracolare, tacque. Del resto nessuno aveva particolarmente insistito sull’argomento nemmeno in istruttoria. Limitarsi a coppole e lupare fu una scelta sicuramente saggia, probabilmente necessitata, e su questo Caselli ha ragione. Ma quella scelta fu il limite del maxiprocesso.
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