Racconto breve. Luccicare a Procida

Tina non si vergogna, si spacca la schiena ringraziando Iddio, e i suoi occhi fanno luce per tutti: la mamma che piange,

Porto di Procida, Conte Aldo (Napoli 1948 - 1982)

di Annalena Benini | 08 Agosto 2015 ore 06:18

Ricky lu chiattone che si torce le mani, suo figlio Gesù Bambino e la sua isola su cui sentirsi amataTina non si vergogna, si spacca la schiena ringraziando Iddio, e i suoi occhi fanno luce per tutti: la mamma che piange, Ricky lu chiattone che si torce le mani, suo figlio Gesù Bambino e la sua isola su cui sentirsi amata

Sei autori e un territorio, anzi un’isola. La prima edizione di Procida racconta, iniziativa promossa dalla libreria Nutrimenti Bookshop, nasce da una formula semplice, ma a suo modo rivoluzionaria su molti piani. Alcuni scrittori soggiornano per pochi giorni nell’isola. Vengono accompagnati e introdotti alla conoscenza dei luoghi e della comunità che li abita, dei temi e dei problemi sociali, economici, umani con cui si confronta. E subito dopo sono chiamati a una sfida all’apparenza improba: eleggere una delle figure reali che vivono nell’isola a protagonista di un proprio racconto da scrivere entro un tempo breve e determinato, i giorni del proprio soggiorno. Hanno scritto Annalena Benini, Leonardo Colombati, Paolo Di Paolo, Chiara Gamberale, Michela Monferrini e Walter Siti.

Tina ha sei anni e gli occhi che luccicano, anche al cimitero quando fra le tombe è nero nero, perché suo padre è il custode e sta facendo le prove delle luci, domani è il giorno dei morti e bisogna che sia tutto a posto. Vieni Tina, aiutami un po’ tu, non c’è da vergognarsi, mettiti lì e dimmi che cosa vedi, non avere paura. E Tina non ha paura e Tina non si vergogna, un poco del nome però sì, Annunziata, e anche un poco degli zii che fanno le pernacchie per strada in cambio di una sigaretta, perché poi a scuola le dicono: “Sei scema tu, sei della famiglia degli scemi”. Ma gli occhi le luccicano così tanto, mentre ride e mentre è seria, mentre impara a nuotare buttandosi dagli scogli della Vivara, e da più grande anche dal ponte che tiene unita la Vivara all’isola, che poi nessuno ha più il coraggio o la voglia di prenderla in giro. Solo di stare a guardarla, quando cammina per i vicoli senza sole dietro la nonna che va a fare le punture nelle case dei vecchi per una gallina, per mille lire, e quando a quattordici anni va a fare le pulizie nelle altre case, perché studiare non è il momento e perché se vuole comprare lo shampoo che fa i capelli morbidi e non quello brutto che usa sua madre, allora c’è questo pavimento da lavare, questo cesso che fa schifo, Tina vacci tu che sei brava, “ringraziando Iddio”, e comincia a toglierti quelle stelle dagli occhi, che qui di stelle ce ne stanno abbastanza in cielo, e poi a che servono le stelle se non le insegui mai, se non scappi via da questi vicoli dove tutti quelli che incontri, i forestieri che arrivano in vacanza da Napoli, da Roma, che ti ammirano mentre ti tuffi dagli scogli con i capelli in su, ti dicono: ma come fai a restare qui pure d’inverno ad annusare i muri, gli occhi luccicanti ti si spegneranno se non vai via, diventeranno del colore del cesso di quel ristorante, e i capelli diventeranno duri come quando li lavi con lo shampoo cattivo, e i pensieri ti si spegneranno dentro la testa.

Tina scappa, dai, Tina sei brava a tuffarti dal ponte, a cucire, a inventarti l’amore, vieni a Roma con me, ti faccio fare la costumista a teatro, è un bel lavoro sai, ed è il 1995, non puoi marcire sull’isola: sull’isola ci scappi quando nasci in città, quando sei offeso dalla città, quando pensi che tutta quest’acqua intorno ti offrirà riparo: adesso smettila di pulire le case dei vecchi, fanno schifo i vecchi quando sono vecchi e credono di sapere tutto e non hanno capito niente, però smettila anche di guardarmi con tutta quella luce, mi dà fastidio, chi ti credi di essere: non si può vivere senza aver vissuto, non si può restare senza essere prima scappati, finirai come tuo nonno, Napoleone di nome e Terzo di cognome, che alla visita per il militare gli hanno chiesto le generalità, e a sentire Napoleone Terzo lo volevano rinchiudere. Finirai rinchiusa dentro questa prigione che è l’isola.

ARTICOLI CORRELATI  Avviso al Fatto: se la collana di poesie Mondadori chiude è perché non ci sono più poeti pubblicabili  Guerra fredda Ma io ti amo. L’ha scritto a Tina “Ricky lu chiattone” una sera, dopo che era stato tutto il tempo a testa bassa come un toro a guardarla ballare al matrimonio di quell’amico a Napoli, con il vestito che a lui pareva troppo trasparente per lei così abbronzata, con quei tatuaggi, le unghie lunghe color mela verde, un brillantino incastonato su un dente, così quando sorride le luccica anche la bocca, non soltanto gli occhi. Ricky lu chiattone così alto e grosso che lei accanto scompare, Jeeg robot d’acciaio lo ha chiamato un ragazzo di Roma che faceva il militare a Procida, che un giorno Ricky l’aveva aspettato fuori dalla caserma per dirgli: “Tu a Tina devi lasciarla stare, se la prendi in giro ti spezzo tutte e due le gambe”.

Ma io ti amo, scritto da un telefonino all’altro, da un muro all’altro dell’isola in primavera, perché Tina non voleva più vedere uno che la fissava a testa bassa come un toro con il fumo che esce dal naso, non puoi essere geloso, io ballo con chi voglio, ho vent’anni, sono rimasta a Procida perché senza i miei occhi che luccicano si spengono anche le luci degli altri, mia madre morirebbe di dolore, Napoleone Terzo anche, che è mio fratello piccolo e me lo sono tatuato sulla spalla, lasciami ballare. Ma io ti amo, voglio che cambi la scheda del cellulare perché ho paura che ti telefonano in troppi, non posso spezzare le gambe a tutti. Ma se tu mi ami, allora facciamo luccicare quest’isola, tu fai il pane e io mi spacco la schiena ringraziando Iddio, mi fa malissimo, ma sento il bene che mi fai tu, e se ti guardo con i miei occhi diventano belli anche i tuoi. Cambio la scheda del cellulare, che mi importa, tu però restami vicino, andiamo alla grotta che c’è su al carcere a sentire la pace.

Anche la notte di Natale, sul traghetto vuoto per Napoli, in mezzo al mare ci sono gli occhi di Tina a fare luce per tutti, alla mamma che piange, a Ricky lu chiattone che si torce le mani, al marinaio che guarda la pancia di Tina e dice: signò vado più veloce ma non partorite qui che fa freddo, signò come lo chiamerete, Gesù Bambino? Gesù Bambino uscì fuori come un missile, perché il tassista aveva preso tutte le buche di Napoli, il liquido che stava dentro la pancia schizzò anche sopra le ciabatte che stavano sotto il letto, e la schiena di Tina ebbe bisogno di placche di titanio perché se l’era spezzata troppo nei cessi. Il professore di Milano non ci credeva che quel bambino in braccio era il suo, che lei l’aveva spinto fuori come un missile e non era morta.

“Signora, è un miracolo questo, adesso però basta, adesso bisogna spegnere tutto, adesso chiudete gli occhi che ci pensiamo noi”. E la luccicanza era ancora lì, al risveglio, quando le dissero: “Muova le gambe”, e le gambe risposero al richiamo. Solo il tatuaggio sulla schiena si è rovinato con l’operazione, un po’ come certe spiagge dell’isola, che le onde gli fanno cambiare la forma, ma sono ancora le stesse.

Ma io ti amo, Tina. Anche se non lavoro più, se mangio troppo, se in tasca tu conti le monetine per comprare la pasta e mi fai luce con gli occhi sennò mi viene la faccia da toro, quando l’hanno ammazzato però, infilzato da quegli stronzi con le calze bianche. Ce ne andiamo, Tina? Andiamo via da quest’isola che ci imprigiona. Amore, dammi la mano, ci penso io. A mettere le pillole dentro le polpette per curarti, a inventarci un’altra vita, a cullare Gesù Bambino, a piangere solo nei cessi dove non puoi vedermi.

Al ponte della Vivara, quando diventa buio e freddo, quando nessuno scavalca più il cancello, Tina a volte parla con l’isola, da quel punto in cui l’isola è ancora isola ma potrebbe scomparire come dentro un cratere, e si arrabbia, le dice io ti lascio, portiamo via Gesù Bambino da qui, sei diventata cattiva, spezzi le persone e le fai diventare secche come i muri delle strade. Ma un giorno da quel ponte a Tina diventa tutto irresistibilmente chiaro come dopo un tuffo dall’alto, fra le ciglia di quegli occhi che non sanno smettere di luccicare, fra i cuori che suo marito le manda sul telefono quando non la vede per due ore, per il senso di spossatezza che lo prende quando lei non torna a casa perché alla lavanderia nuova, adesso, ci sono tutte le camicie del mondo da stirare, e si può anche fare la crociera d’estate, ma lui le dice: sei troppo stanca, non è questo che volevi dalla vita. Invece è questo. “Potermi dire amata su questa terra, sentirmi amata su quest’isola”, è così semplice, forse è perfino troppo, ma è l’unica cosa che ho voluto sempre. E’ un altro tatuaggio sulla schiena, siamo noi tre a Procida

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