L’aut aut che la Cei purtroppo non si pone: gli immigrati o il nostro welfare
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Si possono chiedere frontiere più aperte? Certamente, ma solo se ogni immigrato non finisce per gravare sulle spalle dei contribuenti
di Carlo Lottieri | 13 Agosto 2015 ore 13:27 Foglio
La polemica che oppone la Lega e la Cei sembra rinviare soltanto a una diversa accettazione del tema dell’accoglienza, ma a ben guardare le cose non stanno esattamente in questi termini.
Al cuore del messaggio evangelico c’è il primato della carità: la necessità di mettersi al servizio del prossimo e in particolare dei più bisognosi. E’ quindi giusto che i vescovi italiani si preoccupino del destino di quanti lasciano i loro paesi e vanno incontro a situazioni di disagio approdando in Europa. Ma le regole di una buona politica in tema di immigrazione implicano anche considerazioni di altro tipo, su cui l’episcopato dovrebbe riflettere con attenzione.
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Nel corso del Novecento l’evoluzione dello Stato moderno ha portato all’imporsi di ordinamenti redistributivi nei quali taluni possono ottenere abitazioni a canone agevolato, istruzione e sanità gratuite, forme di vario tipo di assistenza. Entro ogni welfare state l’arrivo di “nuovi poveri” crea dunque una competizione con le aree più deboli della popolazione locale e di conseguenza apre la strada all’inevitabile imporsi di movimenti populisti. Se un’amministrazione dispone di cento abitazioni per le famiglie più bisognose, le quali ritengono di vantare un qualche diritto a ciò, è normale che esse si oppongano all’arrivo di altri soggetti in difficoltà. La logica conflittuale del “noi” (gli italiani) contro “loro” (gli stranieri) caratterizza ogni sistema statuale, basato sulla cittadinanza, e viene però esaltata nel momento in cui la comunità politica si prende sempre più cura della società nel suo insieme. La socializzazione operata dal welfare State rafforza insomma la dimensione nazionalistica e la tensione tra insider e outsider.
Prima dello Stato sociale i fenomeni emigratori incontravano meno ostacoli. Nulla è mai stato semplice (anche perché non vanno dimenticati i problemi di ordine pubblico che accompagnano l’arrivo di grandi masse di persone), ma è sicuramente vero – per ricordare un esempio classico – che era più facile andare in America quando chi vi arrivava non otteneva aiuto e assistenza, ma doveva semplicemente faticare e costruirsi in tal modo – anche grazie alla comunità di origine – un futuro migliore. I vescovi dovrebbero allora comprendere che ogni difesa del welfare state implica un moltiplicarsi dei contrasti tra la popolazione originaria e gli immigrati. E’ impossibile parlare di accoglienza entro un quadro in cui ogni nuovo arrivo diventa un peso per quanti già vivono lì. Sul piano morale, per giunta, qui si colloca la distinzione tra l’obbligo che ha ogni cristiano di aiutare il prossimo e la funzione specifica che le istituzioni pubbliche devono assumere. La sensazione è che in troppi casi questi due piani vengano confusi, sacrificando la libertà e la responsabilità personali sull’altare di buone intenzioni che attribuiscono al potere statale competenze che non dovrebbero essere sue.
Si possono chiedere frontiere più aperte? Certamente, ma solo se ogni immigrato non finisce per gravare sulle spalle dei contribuenti e creare pericolosi conflitti. Non è giusto e non è ragionevole, in considerazione delle tensioni (facilmente prevedibili) che discendono da ciò.
Per il mondo cattolico questa dovrebbe soprattutto essere l’occasione di ricondurre la sfera della carità, della responsabilità e dell’accoglienza nel suo alveo: che è quello dei singoli e delle loro comunità volontarie, e non già del potere statale coercitivo. Perché o la carità nasce dal cuore, oppure non è tale.
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