Altro che Papa pastorale, il diplomatico Francesco ridisegna il mappamondo
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Così la Santa Sede torna al centro della politica mondiale. Il ruolo del cardinale Parolin
di Matteo Matzuzzi | 15 Maggio 2015 ore 06:15 Foglio
Roma. Prima la mediazione decisiva tra Cuba e gli Stati Uniti, poi il passo decisivo verso il riconoscimento dello stato di Palestina e le premesse (tutte da verificare) per imbastire un dialogo con la Cina comunista. Prima ancora, la veglia di preghiera con annesso digiuno per la Siria e la lettera inviata a Vladimir Putin. Pare di essere tornati negli anni Sessanta-Settanta, racconta oltretevere chi si ricorda gli anni della Ostpolitik montiniana e casaroliana. “Grazie a Papa Francesco, il peso della diplomazia pontificia nel contesto internazionale è in crescita. Ma come lo stesso Pontefice ci ha ricordato più volte, rappresentare la chiesa cattolica agli occhi del mondo è un compito molto delicato, che richiede pazienza e perseveranza”, diceva qualche giorno fa il cardinale Dominique Mamberti, prefetto della Segnatura apostolica ma diplomatico di carriera e già segretario per i Rapporti con gli stati. L’attivismo del Pontefice callejero sorprende, lui che era stato raccontato come Papa spirituale, quasi un eremita, a sentire quel che dicevano di lui alcuni cardinali nel dopo Conclave. “Si diceva che Bergoglio, Papa pastorale, non fosse portato alla diplomazia. Invece, si moltiplicano incontri e iniziative, come questa tra Stati Uniti e Cuba”, notava sul Corriere della Sera lo storico Andrea Riccardi. Senza dimenticare la reunion nei Giardini Vaticani, del giugno scorso, tra lui e Bartolomeo I, Abu Mazen e Shimon Peres. Una diplomazia diretta, fatta di colloqui a Santa Marta o telefonate intercontinentali, ma che si fonda soprattutto sul ritrovato dinamismo della Segreteria di stato retta dal cardinale Pietro Parolin, in fama di essere uno dei migliori prodotti della nobile scuola vaticana (anche prima di venir spedito, nel 2009, a Caracas in qualità di nunzio).
, Santa Sede Certo, su Palestina e Cuba i negoziati – lenti e pazienti – andavano avanti da decenni. Eppure, a proposito di Cuba, “il vero diplomatico in tutta questa vicenda è stato Papa Francesco”, ha spiegato mons. Giovanni Angelo Becciu, sardo di Pattada, sostituto della Segreteria di stato e già nunzio sull’isola. Lì avevano già messo piede Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ma doveva arrivare un Papa argentino per mediare sottotraccia tra Washington e L’Avana. Non è un caso, se è vero che – come diceva al Foglio lo storico del cristianesimo “di scuola Vaticano II” Massimo Faggioli – Bergoglio “è un latinoamericano, il che comporta una certa quantità di anti americanismo. Negli Stati Uniti questo si sa bene, solo che non si può accusare esplicitamente il Pontefice di essere anti yankee. E’ una questione latente”. Insomma, Raúl Castro non poteva sperare di meglio per tentare di cancellare l’embargo che strangola l’economia della repubblica socialista.
Ma in cima all’agenda del Papa gesuita c’è l’Asia da evangelizzare. Il continente immenso dove assai poco il cristianesimo ha attecchito, isole felici a parte (Filippine, Corea del sud, Sri Lanka). E’ l’eterna chimera della chiesa romana, se è vero che “già negli anni Trenta si diceva che l’Asia rappresentava la sfida, poi le cose non sono andate avanti per il meglio”, ricordava su questo giornale Andrea Riccardi. In due anni di pontificato, Francesco c’è stato due volte, visitando tre paesi. Benedetto XVI, in quasi otto anni, mai (Terra Santa esclusa). Istinto del missionario, quello del Bergoglio che da giovane voleva trasferirsi in Giappone, ma anche sano realismo politico: la Cina, potenzialmente, è il più grande paese cristiano al mondo, se si mettono insieme i fedeli alla chiesa ufficiale di stato e quanti si richiamano alla chiesa sotterranea in comunione con Roma, sul cui numero le cifre sono ancora dibattute. E’ anche per questo che il Vaticano mantiene il profilo basso riguardo Pechino, non alzando la voce per l’occultamento delle croci e per la sparizione di sacerdoti e vescovi, che spesso ricompaiono sui bollettini ufficiali solo da morti. Quel che c’era da dire pubblicamente sulla questione è stato detto otto anni fa, con la “Lettera ai cattolici cinesi” di Ratzinger (alla cui stesura partecipò Parolin, che nel frattempo lavorava all’approfondimento delle relazioni bilaterali con il Vietnam, altro dossier assai delicato). A questa, in una delle ultime conferenze stampa in aereo, il Papa si è richiamato. Il resto è prudenza assoluta: niente metafore o battute, solo parole di “vicinanza” per il “grande popolo cinese al quale voglio bene”.
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