Al Sinodo non si combatte in punta di fioretto.
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La fraterna correzione di Müller al programma di governo papale
di Matteo Matzuzzi | 27 Marzo 2015 ore 06:18 Foglio
Roma. I padri se le danno di santa ragione, e perfino Walter Kasper, durante un’affollata conferenza in Inghilterra, invita alla preghiera corale per far fronte “alla battaglia in corso”, assai cruenta. La battaglia è quella del Sinodo prossimo venturo, al termine del quale il Papa dirà (tra le tante altre cose) che cosa si dovrà fare con i divorziati risposati desiderosi di riaccostarsi all’eucaristia, tema delicato che lo scorso ottobre ha spaccato l’assemblea riunita nell’Aula Nuova, tra relazioni disconosciute dai firmatari e cardinali che hanno gridato alla censura. E la disfida non pare combattersi in punta di fioretto. L’ultima mossa, in ordine di tempo, è quella del cardinale Gerhard Ludwig Müller, il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede messo lì da Benedetto XVI e confermato dal successore Francesco, che gli ha pure concesso la porpora. “Delegare alcune decisioni dottrinali o disciplinari sul matrimonio e la famiglia alle conferenze episcopali è un’idea assolutamente anticattolica”, ha detto in un’intervista esclusiva al settimanale francese Famille Chrétienne. Un bel problema, visto che ad auspicare tale “delega” era stato il Pontefice in persona nell’esortazione Evangelii Gaudium, che Francesco stesso aveva eretto a summa ufficiale del pontificato: “Sottolineo che ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti”, si legge nelle prime battute del monumentale documento pubblicato nel novembre del 2013. E tra i punti qualificanti di quel programma c’era proprio la devoluzione di “qualche autentica autorità dottrinale” alle conferenze episcopali nazionali, anche perché “un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della chiesa e la sua dinamica missionaria”. Ma la chiesa, ha chiarito Müller senza nascondersi dietro prudenti perifrasi, “non è un insieme di chiese nazionali, i cui presidenti votano per eleggere tra loro il leader universale”. E al collega connazionale Reinhard Marx che con lessico manageriale aveva fatto sapere al mondo che loro, i tedeschi, “non sono una filiale di Roma” – il cardinale Paul Josef Cordes aveva già bollato come “chiacchiere da bar” le esternazioni dell’arcivescovo di Monaco – il capo dell’ex Sant’Uffizio ha risposto che “questo genere di posizioni rischia di risvegliare una certa polarizzazione tra le chiese locali e la chiesa universale”, questione “superata sia dal Concilio Vaticano I sia dal Vaticano II”. Una conferenza episcopale, ha aggiunto Müller, “non è un particolare concilio e tantomeno è un concilio ecumenico. Il presidente di una conferenza episcopale non è altro che un moderatore tecnico, e come tale non ha alcuna particolare autorità magisteriale. Sentir dire che una conferenza episcopale non è una filiale di Roma mi dà l’occasione per ricordare che neppure le diocesi sono filiali della diocesi di qualche conferenza episcopale”. La chiesa, ha osservato l’ex vescovo di Ratisbona, “non è un’organizzazione filantropica. Dire che noi rispettiamo le opinioni di tutti e che vogliamo bene a tutti non è sufficiente. Presentare il Vangelo come un semplice messaggio terapeutico non è difficile, ma non risponde all’esigenza di Gesù. I primi apostoli, i padri della chiesa, i grandi vescovi della storia hanno spesso navigato sfidando venti contrari. Come potrebbe essere diverso per noi?”.
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Alle parole di Gerhard Ludwig Müller, che ribadisce ogni netta opposizione a cambiamenti circa la morale sessuale – l’aveva fatto per primo con un lungo articolo pubblicato sul giornale tedesco Tagespost, successivamente ripreso integralmente dall’Osservatore Romano, organo ufficiale della Santa Sede, nell’ottobre del 2013 – fa da eco la lettera pubblica firmata con nome e cognome da 461 sacerdoti inglesi e gallesi. Un documento che ha portato il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, a dichiarare che è preferibile per i preti evitare di intervenire sui giornali in merito alle questioni oggetto del Sinodo, e che se hanno qualche osservazione da fare, il referente deve essere il vescovo. Non i periodici. “Come sacerdoti cattolici – si legge nella lettera – vogliamo riaffermare la nostra fedeltà incrollabile alla dottrina tradizionale concernente il matrimonio e il vero significato della sessualità umana, fondata sulla Parola di Dio e insegnata dal Magistero della chiesa per due millenni”. L’auspicio, uno solo: “Esortiamo tutti coloro che parteciperanno al Sinodo a fare un annuncio chiaro e fermo dell’insegnamento morale immutabile della chiesa, in modo che la confusione possa essere chiarita, e la fede confermata”. Damian Thompson, in un editoriale apparso sullo Spectator, s’è detto stupito nel leggere che molti dei firmatari sono tutt’altro che tradizionalisti o conservatori e che, anzi, sono convinti ammiratori di Francesco.
L’appello dei preti britannici è in linea con la posizione assunta dalla Conferenza episcopale polacca, che la scorsa settimana ha annunciato di voler “difendere l’insegnamento morale di san Giovanni Paolo II”, fondato sulla Familiaris Consortio, all’assemblea ordinaria del prossimo autunno: “Nessun Papa è creatore della dottrina della chiesa, ma solo il suo primo protettore, in collaborazione con l’intero episcopato”, aveva chiosato mons. Marek Jedraszewski, vescovo di Lodz e vicepresidente della locale conferenza episcopale.
Müller, nell’intervista a Famille Chrétienne, paventa il rischio di guardare alla chiesa come fosse un parlamento, con gli schieramenti politici, conservatori da una parte e progressisti dall’altra, novatori di qua e rigoristi di là. Diventando così preda di quelle tentazioni di cui aveva parlato Francesco nel suo intervento a conclusione del Sinodo dello scorso autunno: da una parte, la tentazione “dell’irrigidimento ostile, cioè il voler chiudersi dentro lo scritto e non lasciarsi sorprendere da Dio”, propria di “zelanti, scrupolosi, premurosi e dei cosiddetti tradizionalisti e intellettualisti”. Dall’altra, la tentazione “del buonismo distruttivo, che a nome di una misericordia ingannatrice fascia le ferite senza prima curarle e medicarle, che tratta i sintomi e non le cause e le radici. La tentazione dei buonisti, dei timorosi, dei cosiddetti progressisti e dei liberalisti”. Ieri, nella consueta omelia mattutina di Santa Marta, il Papa s’è soffermato sulla chiusura mentale dei legalisti, incapaci di “gioire”. Commentando le letture del giorno, Bergoglio ha osservato che i dottori della legge “avevano soltanto un sistema di dottrine precise e che precisavano ogni giorno in più che nessuno le toccasse. Uomini senza fede, senza legge, attaccati a dottrine che anche diventano un atteggiamento casistico: si può pagare la tassa a Cesare, non si può? Questa donna, che è stata sposata sette volte, quando andrà in cielo sarà sposa di quei sette? Questa casistica… Questo era il loro mondo, un mondo astratto, un mondo senza amore, un mondo senza fede, un mondo senza speranza, un mondo senza fiducia, un mondo senza Dio. E per questo non potevano gioire!”. Il loro cuore – ha aggiunto – “era pietrificato. E’ triste essere credente senza gioia e la gioia non c’è quando non c’è la fede, quando non c’è la speranza, quando non c’è la legge, ma soltanto le prescrizioni, la dottrina fredda”.