Roma e Gerusalemme. La Chiesa cattolica e il popolo d’Israele

Cattolicesimo ed ebraismo palestre di democrazia, il rapporto tormentato tra le due grandi confessioni

9.10. 2024 alle 17:43 Marco Campli, ilriformista.it lettura

C’è una specificità dell’antisemitismo cristiano e cattolico che è utile tenere presente. Scrive Francesco Fumagalli nel suo “Roma e Gerusalemme. La Chiesa cattolica e il popolo d’Israele” (Mondadori 2007): «Se intendiamo seriamente occuparci dell’odio antiebraico, chiamato oggi antisemitismo, non possiamo limitarci a un’analisi dei fatti del novecento, ma occorre considerarne le varie componenti e cause nel corso dei secoli».

L’autore (di cui consigliamo vivamente la lettura, mettendo a valore proprio la sua particolare formazione culturale: studi presso la Università cattolica di Milano e poi ordinato prete) tratteggia questi essenziali passaggi: «Nell’alto medioevo, le comunità ebraiche avevano progressivamente perso quei “privilegia” che l’impero romano per secoli aveva loro garantito fino al secolo IV. Segni evidenti di netto peggioramento cominciarono a notarsi fra il secolo IX e secolo X; e possiamo riassumere i chiari indizi di questo cambiamento negativo nelle sottolineature della figura degli ebrei come “deicidi”, durante le rappresentazioni della Passione di Gesù che si diffusero a quell’epoca e, specificamente, nella preghiera “Pro perfidis Judaeis” del venerdì santo; più in generale, l’affermarsi del progetto medievale di costruire una “Societas christiana” produceva emarginazione e intolleranza verso le minoranze irriducibili, fossero eretici, musulmani o ebrei, dei quali si cercava intensamente con ogni mezzo la conversione o l’espulsione». Da queste premesse emergono stereotipi che resistono anche nei tempi ad alto tasso di secolarizzazione.

Da una parte, «gli stereotipi dell’ebreo avvelenatore di pozzi e usuraio e dell’infanticidio rituale; accuse nelle quali si fondono connotazioni socio-economico-religiose, col risultato di produrre un’immagine demoniaca dell’ebreo, in rapporto con forze sataniche e occulte, al pari di streghe e indemoniati»; dall’altra «la predicazione, l’arte figurativa nelle chiese e la letteratura contribuiscono a divulgare queste immagini stereotipe: da Pietro il Venerabile a Raimondo Martini si sviluppa una trattatistica che preparerà i roghi del Talmud e dei libri sacri ebraici del cinquecento». La Riforma, dove la nostra cultura fissa anche la nascita della Modernità, non fa eccezione. Scrive Fumagalli: «Lutero, dopo un breve periodo iniziale di fervore rivolto agli ebrei, passa ad una violentissima polemica, espressa nel 1542 nel libello “Contro gli ebrei e le loro menzogne”».

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In Italia, in particolare, cattolici ed ebrei si ritrovano ugualmente danneggiati dalla Controriforma.

Osserva, a tale proposito, lo storico Adriano Prosperi: «La ricca e libera cultura che il mondo ebraico aveva sviluppato nel corso del cinquecento scompare, insieme alla cultura del Rinascimento italiano, nel grigiore della Controriforma». «A partite dal 1790 – approfondisce Fumagalli – l’emancipazione ebraica e la fine del regime del ghetto coincisero con la fine dell’”Ancien Regime”, con la progressiva applicazione dei principi egualitari della Rivoluzione francese; e subirono le alterne fortune napoleoniche e poi risorgimentali delle nazioni europee.

Ma le ondate di restaurazione successive videro anche l’affacciarsi del mito del complotto giudeo-massonico; un mito che univa al fascino politico una seducente facciata anti-cristiana, erede dell’antica ebreo-fobia patristica e medievale». Pregiudizi teologici e teocratici formano una miscela quantomai capziosa. Ci volle tutta l’autorità di un grande papa – Giovanni XXIII – e del Concilio Vaticano II, per imprimere una svolta fondamentale alle relazioni cristiano-ebraiche.

Ma il “perfidis” si rivelò un “inciampo” anche per Angelo Roncalli, eletto nel 1959 papa Giovanni XXIII; lo accantonò con molta prudenza. Durante la liturgia del primo Venerdì santo, appena eletto papa, si limitò a togliere l’aggettivo, da “Oremus et pro perfidis Judaeis”, a “Oremus et pro Judaeis”. E lì si arrestò. Il riconoscimento della dignità profonda degli Ebrei, avvenne nel 1970, quando papa Paolo VI introdusse la nuova Liturgia, riformata dal Concilio (tra l’altro tradotta nelle diverse lingue): un atto, quindi, che impegnava il sentire e il pensare della intera cattolicità: «Preghiamo per gli ebrei: il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza».

E veniamo a questi nostri giorni. «C’è un problema di teologia regredita e di incomprensione sostanziale», ha detto il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, intervenendo alla 35esima “Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei”.

La “Giornata” si è tenuta nel novembre 2023, a ridosso del massacro del 7 ottobre. «Sono stati fatti molti passi indietro nel dialogo ed è necessario riprendere il filo del discorso», ha sottolineato Di Segni. Il rabbino capo di Roma ha certificato quel che già era chiaro, e cioè la distanza che persiste e separa il cattolicesimo di tutti i giorni dall’ebraismo. Decenni di meticoloso e difficile lavorio, teologico e politico, rischiano di perdersi per strada; servirà una certosina opera di ricucitura, basato sullo studio e sulla conoscenza.

Una palestra, peraltro, dove anche la Democrazia potrà trovare un suo specifico nutrimento. È urgente!

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