Le nuove nomine del papa sono un messaggio a Trump
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Mentre il messicano Gomez viene eletto per guidare (fra tre anni) la Chiesa Usa, Francesco mette cardinali pro-migranti in diocesi chiave. Tra cui Tobin, 'nemico' di Pence. E si prepara così all'insediamento di Donald.
FRANCESCO PELOSO, Lettera43 4.12.2016
Non sarà facile sciogliere il gelo che avvolge i rapporti tra il nuovo presidente Usa Donald Trump e papa Francesco. I due non si amano, ma politica e diplomazia sono strumenti duttili: il tycoon prima o poi verrà a qualche più mite consiglio e Francesco farà prevalere il 'bene della Chiesa'. D'altro canto non era proprio Jorge Mario Bergoglio, da arcivescovo di Buenos Aires, un acerrimo nemico dell'ex presidente Cristina Kirchner e un fiero rivendicatore delle Malvinas argentine? Da papa, ha teso una mano alla sua ex rivale incontrata numerose volte. Per non parlare di Elisabetta II, regina d'Inghilterra, venuta in Vaticano e accolta come una vecchia amica. Todo cambia, dunque? Fino a un certo punto, perché i precedenti sono pesanti.
LO SCONTRO DI FEBBRAIO.«Chi costruisce muri non può dirsi cristiano», disse il pontefice nel febbraio scorso tornando dal Messico, dove si era fermato a pregare davanti ai fili spinati e alle barriere che tagliano addirittura in due una città: El Paso-Ciudad Juarez a seconda che ci si trova sul lato statunitense o su quello messicano del confine. Qui dovrebbe sorgere, a dare maggior tenuta alla porosità della frontiera, il muro trumpiano, di cui però lo stesso tycoon, prudentemente, ha per ora smesso di parlare. Quando poco meno di un anno fa il papa pronunciò il severo giudizio, i giorni della sorprendente vittoria di Trump erano ancora lontani. Tuttavia, la sua corsa verso la Casa Bianca era già iniziata a suon di promesse di rimpatri per milioni di indocumentados (gli immigrati senza cittadinanza o permessi di soggiorno) e Bergoglio tentò subito lo sgambetto.
PALLA A PAROLIN E ROMNEY. Il primo papa sudamericano e del Sud del mondo aveva scelto fin dal principio del pontificato di porre al centro del suo magistero i migranti. Senza contare che in America i latinos, con cittadinanza o irregolari, costituiscono oggi, numeri alla mano, la spina dorsale del nuovo cattolicesimo a stelle e strisce. Sarà allora compito delicato delle rispettive diplomazie, a Washington e a Roma, quello di aprire un buon canale di comunicazione fra Casa Bianca e Vaticano. Un compito arduo al quale si dovranno dedicare da una parte il Segretario di Stato vaticano, il paziente cardinale Pietro Parolin, e dall'altra, probabilmente, Mitt Romney, il mormone, quale nuovo "ministro degli Esteri" della Casa Bianca.
José Gomez, 65 anni, messicano di Monterrey naturalizzato statunitense.
Gomez si è battuto per la riforma migratoria a lungo bloccata dal Congresso sotto la presidenza Obama
Se è vero che una maggioranza stretta di fedeli della Chiesa di Roma – ma non di latinos in senso assoluto – ha votato questa volta per Trump (nelle due precedenti tornate era stato prescelto Barack Obama), il peso sociale ed elettorale della comunità di origine ispanica è destinato ad aumentare. Così Francesco non ha perso tempo: e mentre il mondo viveva lo choc Trump, lui correva subito ai ripari. Il 16 novembre scorso, infatti, si riuniva l'assemblea dei vescovi Usa per eleggere la nuova leadership della Chiesa Usa: a diventare presidente è stato il cardinale Daniel Di Nardo, arcivescovo di Galveston-Houston, tradizionalista, rappresentante del partito pro-life, non troppo in sintonia con il papa sulla morale ma attento alla questione migratoria.
GOMEZ IN RAMPA DI LANCIO.Soprattutto, però, ha destato scalpore l'elezione del vice di Di Nardo che, secondo la prassi, diventerà presidente a sua volta fra tre anni, dunque nel pieno della presidenza Trump. Si tratta di José Gomez, 65 anni, messicano di Monterrey naturalizzato statunitense, arcivescovo della più grande diocesi americana, Los Angeles. Dunque, fra non molto a capo della Chiesa americana ci sarà un latino. Se fra tre anni Francesco sarà ancora al suo posto, la trazione latinoamericana della Chiesa universale sarà fortissima. In fondo, siamo di fronte a una svolta che riguarda non solo la Chiesa ma, più in generale, la trasformazione sociale e culturale in corso in America.
DIFENSORE DEGLI ULTIMI.Gomez viene dall'Opus Dei e non è certo un riformista in campo etico. Tuttavia, è un difensore determinato e inflessibile degli immigrati, dei poveri, degli ultimi. In tal senso si è battuto per la riforma migratoria a lungo bloccata dal Congresso sotto la presidenza Obama. Nei giorni successivi all'elezione di Trump, nel corso di una celebrazione interconfessionale a Los Angeles, ha pronunciato una lunga omelia nella quale, fra le altre cose, ha detto: «Il sistema migratorio non funziona da molti anni e i leader politici avrebbero potuto metterlo in regola già da diverso tempo. Più di 2 milioni di persone sono state deportate negli ultimi otto anni, questo non può succedere. Siamo gente migliore di così in questo Paese. Dobbiamo insistere affinché via sia una soluzione giusta e degna dell'America».
Tobin si è scontrato con Pence per aver deciso di accogliere dei profughi siriani
Ma non è tutto. Se Gomez rappresenterà la nuova America mista, metropolitana, in cui aumenta il peso delle comunità latine, Francesco ha dato maggior forza a tutta la Chiesa statunitense individuando una serie di figure chiave destinate, con Gomez, a contare sempre di più in futuro. Per questo ha scelto ben tre cardinali nell'ultimo gruppo di nomine, e tutti significativi. In primo luogo, ha ricevuto la berretta rossa Blase Joseph Cupich, arcivescovo di un'altra mega-città simbolo, Chicago. Cupich è un liberal, pienamente in sintonia con le aperture e le riforme di Francesco.
TOBIN AL POSTO DI MYERS. Sulla stessa linea Joseph William Tobin, ex arcivescovo di Indianapolis e appena nominato da Francesco capo della diocesi di Newark, in New Jersey (titolo che comprende anche l'amministrazione ecclesiastica delle isole caraibiche di Turks and Caicos, noto porto d'approdo per la finanza offshore). A Newark, il neocardinale prenderà il posto del vescovo John Myers, ultraconservatore, accusato di aver insabbiato casi di abuso sessuale, criticato per essersi costruito una mega residenza in vista della pensione. A Indianapolis Tobin si era scontrato con il governatore dell'Indiana, Mike Pence – diventato nel frattempo il vice di Trump – per aver deciso di accogliere dei profughi siriani nonostante le obiezioni dello stesso Pence.
NUOVO DICASTERO A FARRELL. Infine, un cardinale americano di primo piano è tornato in Curia: si tratta dell'arcivescovo Kevin Jospeh Farrell, diventato prefetto del nuovo dicastero – figlio della riforma della Curia e di vari accorpamenti – che si occuperò di laici, famiglia e vita (la bioetica in tal modo non è più un 'regno separato'). Farrell, passato anche dai Legionari di Cristo che però ha abbandonato da tempo, è un 'centrista'. Insomma, né un bergogliano tutto d'un pezzo né un intransigente pro-life, ama la Chiesa della misericordia di Francesco senza esporsi troppo. Il nuovo prefetto, tuttavia, vanta un curriculum importante: ha svolto compiti importanti di gestione amministrativa ed economica nella Chiesa americana, ha insegnato nelle università e coordinato attività caritative. Si tratta di un'altra figura destinata a crescere Oltretevere e che di sicuro soddisfa una Chiesa Usa tornata a contare anche nei sacri palazzi.
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