Caro Francesco, giù le mani da cani e gatti, e lasciaci liberi alle prese col vicino
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Caro Francesco, giù le mani da cani e gatti, e lasciaci liberi alle prese col vicino A Ratzinger piacciono i gatti, a Francesco no, cani e gatti entrano come esseri disdicevoli nelle sue parabole del buon vicinato, non sa che François Rabelais, citando Platone, scriveva nel suo celebre Prologo al Gargantua che “il cane è la bestia più filosofa del mondo”
Papa Francesco incontra alcuni cani in piazza San Pietro
di Giuliano Ferrara | 15 Maggio 2016
A Ratzinger piacciono i gatti, a Francesco no, cani e gatti entrano come esseri disdicevoli nelle sue parabole del buon vicinato, non sa che François Rabelais, citando Platone, scriveva nel suo celebre Prologo al Gargantua che “il cane è la bestia più filosofa del mondo”. Non sa che l’ascosa dottrina del benedettino (già francescano, poi espatriato da quell’ordine) è rintracciabile nei suoi racconti immortali di giganti con la tecnica canina dell’osso smidollato. (“Se l’avete visto avrete potuto osservare con quale devozione lo guata, con qual cura lo vigila, con qual fervore lo tiene, con quale prudenza lo addenta, con quale voluttà lo stritola e con quale passione lo sugge. Perché? Con quale speranza lo studia? Quale bene ne attende? Un po’ di midolla e nulla più”). Rabelais vuol essere letto come il cane addenta l’osso. Francesco pensi ai cani di Luis Buñuel nella Via Lattea, non si faccia immoralizzare dalle stupidaggini statistiche sul consumo canino in occidente come Ersatz o complemento fanatico della vita familiare. Non sia banalmente umano, non trasformi in incenso idolatrico il sapore profumato della pecora. Non tutto è pastorale, sebbene il cane sia notoriamente amico dei pastori e delle pecore. Non c’è ovile senza canile. Non tutto è chiesa povera. E i poveri hanno sempre capito il segreto di fratellanza che li accomuna alla bestia più filosofa del mondo.
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Non nutro sentimenti di ostilità preconcetta contro questo Papa, nemmeno contro gli aspetti più convenzionali e banali della sua predicazione, e non ho il sacro fuoco dei suoi fedeli nemici, di coloro che lo vedono come un dissacratore e un conformatore della dottrina e della prassi cattolica alle spericolate sicurezze di sé di questo mondo. Li capisco, certo, ma non mi adeguo, da papista irredimibile quale sono. Ho cercato con le mie povere forze di studiarlo e di capirlo, all’inizio. Adesso, devo dire la verità, mi aspetto da lui di tutto, quindi niente. Ed è in fondo un modo per essere fedele al soglio di Pietro, che ha cessato per un momento di splendere come fattore sacro di contraddizione e getta sulla terra una grande ombra in cui tutte le vacche sono grigie. Ma lasci stare per cortesia gli animali di compagnia e di lavoro, ultimi umanisti civilizzati in un paesaggio di rovine al centro del quale egli desidera insediare la chiesa, bussando importuno alle porte del vicino.
Se Rabelais con le sue pernacchie lo sgomenta, se propone un’ermeneutica metafisica e letteraria troppo sofisticata, allora si rilegga Montaigne sui cani, e vedrà che il Cinquecento non è soltanto il secolo dei Reverendi Padri, che eleganza e mistero delle bestie affratellate appartengono alla natura civilizzata del mondo più che non alla sua sfocata immagine riflessa dall’ecologia e altre Laudatio. Ci lasci la nostra privacy di amore e solitudine, il nostro gaudio di conversazione e abbaio, e se proprio vuole fare crociate si occupi dell’aborto, della società neutra di genere, e delle altre mille follie soggettiviste che devastano il senso comune tomista dell’essere e della realtà. Al rapporto con i vicini di casa ci pensiamo noi: non avranno il nostro odio, ma nemmeno una pelosa e troppo tenera finzione d’amore. Spesso fanno chiasso e non salutano, giustamente, se li incontri per le scale.
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