La lettera dalla prigionia arriva a Villorba dopo 72 anni
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Mario Pasin ha 85 anni. Dev’essersi tolto e rimesso gli occhiali un paio di volte: no, non è possibile.
La Tribuna di Treviso, 9.2.2016
TREVISO. A volte i ricordi sono istantanei, emergono verticali da passati lontanissimi. Altre volte, invece, devono trovare la loro strada tortuosa, lunghissima. Questa storia rientra nel secondo caso, senza dubbio: una lettera spedita dal prigioniero di un campo di internamento tedesco è arrivata oltre settantadue anni dal giorno in cui è stata scritta.
La consegna. Mario Pasin ha 85 anni. Dev’essersi tolto e rimesso gli occhiali un paio di volte: no, non è possibile. Quella lettera, arrivata qualche giorno fa nella sua casa di Villorba, era datata 5 novembre 1943. A spedirla è stato suo fratello Ferruccio, classe 1914, catturato a Lancenigo e deportato nel campo di internamento per militari a Luckenwalde, stato federale di Brandeburgo, 52 chilometri a sud di Berlino. «Ho una lettera di Ferruccio», gli ha detto il postino. Ingiallita dal tempo di chissà quale percorso, quella specie di cartolina postale porta l’indirizzo di Pietro Pasin, padre di Ferruccio e di Mario, in via “Batisti” a Villorba. Quella casa non c’è più, ma il destino non poteva mancare proprio l’ultimo miglio: il postino conosce la famiglia Pasin, sa che quell’anziano signor Mario che ora vive in via Arno, sempre a Villorba, è fratello del mittente. E gli ha consegnato la lettera.
La lettera. Numeri e codici in tedesco raccontano la sistematicità folle di quell’orrore: prigionieri seriali, ai quali era concesso di spedire «forse una cartolina l’anno», racconta Anna Pasin. La signora è figlia di Ferruccio: suo zio Mario, appena ricevuta la lettera, ha avvisato lei e tutti gli altri parenti. Un’emozione indescrivibile, che si è propagata nella famiglia (sei figli sugli otto di Ferruccio sono ancora vivi) con una velocità che sembra la nemesi della lentezza di quel viaggio di 72 anni. «Caro padre», scrive Ferruccio in quel giorno che appartiene a un’altra Storia, «trovandomi qui io sto bene e cosi spero sia di voi. Tutti voi mi farai sapere come va da quelle parti non pensare per me che me la campo speriamo presto di riabbracciarsi un bacio a tutti tuo Ferruccio». Non sappiamo se l’abbia scritta di suo pugno o dettata: forse l’ha scritta un prete che faceva il cappellano e che raccoglieva le lettere da spedire. È uno dei buchi di questa vicenda incredibile, un altro riguarda il percorso di quella cartolina nello spazio e nel tempo: dove è rimasta in questi anni? Come ha fatto ad arrivare proprio adesso? Anche sulla consegna le versioni divergono: la signora Anna dice che è stato il postino, conoscendo la famiglia. Mario, invece, parla di «un ricercatore» che l’avrebbe recuperata, ma non sa dire di più.
Il ritorno. Ferruccio Pasin dall’agonia di quel campo di internamento era tornato. «Era il settembre del 1945», racconta la figlia Anna, «io avevo due anni e quando l’ho visto sono andata a nascondermi sotto il letto per la paura: sembrava un barbone, coperti di stracci, mani e piedi congelati. Era alto un metro e ottanta, pesava trentasette chili». Un fantasma, facile da vedere lì di fronte pensando alle mille immagini dei campi dell’orrore nazisti. «Dalla Germania era tornato in Italia aggrappandosi sotto un treno, fino a Verona. Da lì era arrivato a Villorba a piedi. Quell’esperienza lo ha sconvolto, segnato per sempre. Di notte si svegliava e scappava nel granaio urlando “vogliono prendermi”», racconta ancora Anna, che scava tra i ricordi e tra le vecchie foto di famiglia nella sua casa fra Treviso e Castagnole. «Dal campo non era mai riuscito a comunicare con noi». Altro scherzo del destino: dalle finestre quasi si vede il centro di smistamento di Poste Italiane, finite in queste settimane nell’occhio del ciclone per i presunti trucchi sulle lettere-civetta che avrebbero “dopato” i test sulla velocità del servizio postale. «Mio padre è morto nel 1981, a 66 anni», racconta infine Anna. Ora però è lì, in quella cartolina emersa dal nulla.
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