Chicchi in fermento. In che modo un’osteria giapponese a Feltre è collegata alla filiera del riso Carnaroli
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Nicola Coppe nella sua sakagura veneta e tra ramen, bao e gyoza ci ha raccontato come la risicoltura locale stia favorendo la produzione di un sake peculiare..
Laura Filios 20.11.2024 linkiesta.it lettura4’
Siamo tornati a trovare Nicola Coppe nella sua sakagura veneta e tra ramen, bao e gyoza ci ha raccontato come la risicoltura locale stia favorendo la produzione di un sake peculiare, molto apprezzato persino in Giappone
Feltre è una piccola Venezia incastona tra le Dolomiti. Perdersi nel suo centro storico cinquecentesco, tra vie acciottolate e facciate affrescate, è come fare un viaggio nel tempo. Allontanandosi dal passato e camminando verso la zona più marginale del borgo, risulta piuttosto avanguardistico imbattersi in una izakaya, collegata alla prima sakagurain Italia. In Giappone le izakaya sono l’equivalente delle nostre osterie, luoghi per mangiare e bere, dove piatti semplici e saporiti accompagnano bevute di sake e chiacchiere. A Feltre, cittadina veneta, regione rinomata per i suoi vini, da qualche anno il sake non è più solo un dettaglio della carta, perché qui lo si produce a chilometro zero.
«L’idea della sakagura (luogo di produzione del sake) è nata da una necessità tutt’altro che scontata su stimolo dell’Università di Pavia: trovare un nuovo sbocco per la produzione di Carnaroli, il riso italiano che porta in tavola il risotto». Nicola Coppe, una laurea in microbiologia e un passato da birraio, è l’artefice di Fermentazioni, progetto nato nel 2020 come sfida e che oggi è diventato un nuovo punto d’attrazione in città. «In Italia il consumo di riso è fortemente legato al risotto, particolarmente richiesto nei mesi invernali. Ma se gli italiani rinunciassero al risotto, la filiera del Carnaroli rischierebbe di collassare». Perché se è vero che il riso è uno degli alimenti più consumati al mondo (dati Fao), il risotto è un piatto che si cucina quasi esclusivamente in Italia. E così, da un problema economico e agricolo, è germogliata una proposta che affonda le radici nel Veneto e si apre alla cultura giapponese.
Dietro il progetto, c’è un’idea brillante: il Carnaroli, che nel 2025 compirà ottant’anni, ha caratteristiche simili al sakamai, il riso usato in Giappone per il sake. I chicchi di questa varietà sono dotati di una cariosside ampia, che contiene una parte centrale bianca, lo shinpaku, perfetta per la produzione della bevanda alcolica giapponese. Questo elemento rende il Carnaroli ideale per produrre sake, anche se con delle peculiarità proprie del riso italiano. Il Carnaroli, infatti, è un riso molto aromatico, qualità che lo rende ideale per il risotto ma che, nel caso del sake, richiede un lavoro aggiuntivo per gestirne l’intensità. Mentre i produttori giapponesi cercano spesso una purezza estrema nel gusto, il sake prodotto con il Carnaroli punta a un profilo più ricco, quasi comparabile a quello di un vino bianco strutturato.
Il cammino per trasformare questa intuizione in una sakagura italiana è stato lungo e complesso. Le tecniche di lavorazione del riso per il sake sono estremamente specifiche e richiedono macchinari particolari. In Giappone, per esempio, il riso viene levigato fino a ridurre il chicco anche del settanta per cento, eliminando le parti esterne più fibrose, che altrimenti renderebbero il sake meno armonioso e più propenso a irrancidire. In Italia, un tipo di lavorazione simile non esisteva, e quindi i fondatori della sakagura feltrina hanno dovuto adattare strumenti da settori come la produzione casearia, ideando soluzioni originali per ogni fase del processo, dalla levigatura del chicco al controllo della fermentazione.
Un ruolo importante in questo progetto lo hanno avuto i contadini di riso del Vercellese e del Pavese, che si sono dimostrati partner essenziali per realizzare questa filiera. In collaborazione con questi agricoltori, sono state selezionate varietà antiche di riso italiano, che si prestano bene a essere lavorate per il sake. La creazione di una sakagura italiana, inoltre, ha permesso di dare spazio alla creatività locale, con un sake che non cerca di imitare quello giapponese, ma piuttosto di esprimere il carattere delle materie prime italiane. Infatti, il sake feltrino si distingue per un colore giallo dorato, una caratteristica inusuale, dovuta proprio alla volontà di mantenere i tratti distintivi del riso italiano. Questi sake hanno riscosso consensi inaspettati anche in Giappone, tanto da ricevere riconoscimenti importanti in concorsi di settore.
La popolarità crescente del sake feltrino ha spinto i fondatori della sakagura ad aprire la loro izakaya, pensata come un luogo di degustazione e incontro tra il pubblico e la cultura del sake. Inizialmente, il progetto prevedeva un piccolo spazio, dove i clienti potessero sorseggiare sake accompagnato da piatti semplici come il ramen. Tuttavia, l’interesse del pubblico è stato tale che la izakaya è diventata un vero e proprio ristorante, con una trentina di coperti. Il piatto forte è il ramen, servito asciutto nella stagione calda e in brodo quando le temperature iniziano a calare. Ma in menu ci sono anche altre specialità della cucina nipponica – bao, gyoza, takoyaki – interpretate con un tocco personale. A testimonianza della cura posta nell’autenticità, il ristorante ha ricevuto la certificazione Japan Food Supporter, rilasciata dal Ministero dell’Agricoltura e delle Politiche Agricole giapponesi, un riconoscimento per l’uso di prodotti autentici giapponesi.
Foto by FermentazioniFoto by Fermentazioni
Foto by Fermentazioni
Al momento in Europa ci sono solo quindici sakagure. «Ma presto ce ne saranno sedici – annuncia Coppe – perché il nostro collaboratore Hoshitaro Asada San sta per aprire quella che sarà la seconda sakagura in Italia. «In Giappone sono finite le licenze per produrre il nihonshu (vero sake giapponese), il nostro Paese è ritenuto molto interessante dal punto di vista dei giapponesi che vogliono fare questo mestiere, perché l’Italia è un paese produttore (il maggior produttore europeo di riso, ndr).
Tra i vari sake prodotti da Coppe, spicca quello leggermente frizzante, “Movat” (che in dialetto pavese significa «datti una mossa») appositamente pensato per avvicinare i palati italiani a questo nuovo prodotto. In un angolo di Feltre, ordinare un bicchiere di sake al posto del Prosecco è diventata così un’abitudine curiosa ma ormai affermata, che richiama una clientela non solo locale, desiderosa di provare una novità che unisce due mondi lontani.
Il progetto della sakagura e della izakaya continua a crescere, con nuove collaborazioni e una rete di fornitori sempre più consolidata. Se all’inizio poteva sembrare un’avventura rischiosa, oggi rappresenta una risposta originale e concreta a una questione economica complessa come quella del Carnaroli, aprendo anche alla possibilità di sostenere altre varietà antiche di riso. Queste varietà, sebbene meno conosciute, sono promettenti dal punto di vista del sake, e potrebbero contribuire a diversificare ulteriormente l’offerta e a valorizzare altre zone di produzione risicola in Italia.
Insomma, mentre nel Paese del risotto il Carnaroli rischia di soffrire, a Feltre il riso italiano si trasforma in sake, e la sakagura diventa simbolo di un legame tra territori lontani e di una visione che guarda al futuro con pragmatismo e un pizzico di spirito pionieristico. Grazie a questo progetto, non solo la filiera risicola può trovare nuova linfa, ma anche Feltre ha guadagnato un’attrazione che unisce Oriente e Occidente.
Making Sake, foto by Fermentazioni
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