L’orchestra della grande truffa di Banca di Vicenza e Veneto Banca
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Non basta sbattere il mostro in prima pagina. Il sistema bancario veneto è una matrioska orrenda: storie di “sghei”, omertà e ipocrisia
di Marco Alfieri | 08 Maggio 2016 ore 06:15 Foglio
Milano. Se fosse la sceneggiatura di un film si potrebbe intitolare “il silenzio è dolo”. Quella lunga catena di violazioni, connivenze, omertà sottotraccia, servilismo fantozziano e obbedienza ipocrita al grado gerarchico del capoufficio che, mescolati insieme, hanno prodotto il crac degli ex super campioni di territorio: le mitiche Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca.
Se non si parte dalla psicologia del microcosmo e dai vizi della provincia italiana, dove tutti si conoscono, bevono il caffè al bar e il primo comandamento è autoassolversi sempre e comunque, si capisce nulla di questa gigantesca distruzione di valore economico, capitale sociale, fiducia e reputazione.
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In Italia siamo abituati a sbattere il mostro in prima pagina senza imparare la lezione. Mai un’autopsia sul cadavere, mai un funerale per capire; si digerisce tutto con cinismo e leggerezza. Che poi sono il pendant perfetto del moralismo giustizialista dilagante. Gianni Zonin (e per larghi tratti Vincenzo Consoli) è stato per anni Dio in terra veneta, potentissimo e riverito, ma da solo non avrebbe potuto compiere questo po’ po’ di sfacelo. “Il cadavere della vecchia Popolare Vicenza porta alla luce un devastante concorso di colpe e di silenzi che risulta difficile attribuire solo all’ispirazione, prima arrogante poi maldestra, del presidente/padrone e di due o tre stretti colonnelli”, spiega Fabio Bolognini, blogger brillante ed esperto di sistemi bancari.
“Alla distruzione della Vicenza hanno contribuito i comportamenti disinvolti del vertice ma anche la diffusa incapacità manageriale e i silenzi assordanti dentro e fuori la banca”, continua Bolognini.
A differenza di quanto è successo in Banca Marche, Carife o Banca Etruria dove un ristretto numero di operazioni avventate ha devastato il patrimonio, “a Vicenza se lo sono mangiati in anni di decisioni sbagliate, condivise da un numero rilevante di dipendenti e controllori”, in una via di mezzo tra volenterosi carnefici e banalità del male (questa volta, e fortunatamente, non di Hitler e del nazismo, bensì del credito).
Il rosario che sgrana Bolognini è lungo e terribile. La distruzione del patrimonio (prima) e della liquidità (poi) passa attraverso “le ingenti sofferenze su crediti prima nascoste poi inevitabilmente emerse nelle ispezioni della Bce; operazioni finanziarie al limite del lecito; avviamenti (acquisizioni) eccessivi da svalutare che hanno portato nella seconda fase, dopo il 2014, a rifiutare le richieste di rimborso di azioni con pretesti assurdi e a collocare sotto il naso dei vigilanti nuove obbligazioni e azioni sulle spalle di 110.000 azionisti, molti dei quali ignari”. Con un sistema degno di un suk (il fido solo se compri azioni, il mutuo solo se diventi socio) che è stato scoperto da Francoforte fino a esplodere nel 2015. E poi “dipendenti di vario livello e anzianità non sempre con la pistola alla tempia del capoufficio, a conoscenza o persino firmatari di prestiti deliberati alle società dei consiglieri in conflitto d’interessi, uffici crediti in grado di sapere che la situazione dei prestiti deteriorati era valutata in modo sbagliato e priva di accantonamenti adeguati, processi gestionali e contabili non all’altezza, ispettori mansueti anche su operazioni d’investimento in fondi esteri con rischi elevatissimi”, snocciola Bolognini. “Cui vanno aggiunti sindaci, revisori e autorità di vigilanza che hanno lasciato correre fino a quando lo schema Ponzi non è esploso per l’intervento della Vigilanza Bce”. Per questo si deve parlare di un grande concorso di colpa, che coinvolge per estensione la classe dirigente locale, Confindustria in testa, quel salottino di maggiorenti del territorio abituati a entrare e uscire dai cda di banche, ex municipalizzate, Camere di commercio e associazioni di categoria. Nel vicentino e nel trevigiano forse più che altrove.
Già, e adesso? Adesso il vero tema è che Veneto Banca sarà il copia incolla della Vicenza. Gli ultimi dati resi noti sono devastanti e il disastrato bilancio della stagione a guida Vincenzo Consoli, il Gianni Zonin di Montebelluna, è lì da vedere. L’attività commerciale della banca è ferma, sta perdendo depositi, le sofferenze esplodono, i crediti deteriorati sono più di due volte il patrimonio e c’è una leadership da barzelletta, come si è visto anche giovedì durante l’infuocata assemblea dei soci che ha ribaltato l’attuale vertice eleggendo un nuovo cda, chiamato a varare l’aumento di capitale da un miliardo di euro. “Scommettiamo che nessuno vorrà le sue azioni? Non riusciranno a collocarle ai soci bruciati dal recente passato né agli investitori istituzionali”, prosegue Bolognini. Dopo la Vicenza, probabilmente salterà anche questa quotazione. “Credo che a Roma lo diano già per scontato. D’altronde se andassero a fare un road show del titolo Veneto Banca, chi troverebbero interessato?”. Tanto più dopo le incredibili parole dell’attuale ad Cristiano Carrus: “Andiamo in Borsa perché disperati…”. Come dire, un’ottima operazione di marketing…
Se alziamo lo sguardo, non è un bel momento. Il sistema bancario italiano, celebrato come solido negli anni della grande crisi, ha quattro pazienti salvati dal governo in dote a Roberto Nicastro (presidente di Nuova Banca delle Marche, Nuova Banca Etruria e Lazio, Nuova Carife e Nuova Carichieti) che dovrà venderle questa estate al mercatino dei saldi. C’è il sistema delle Bcc alle prese con le pulizie straordinarie e un nuovo assetto di governance. E poi c’è il fondo Atlante appena varato che ha già sottoscritto, in mancanza di investitori, l’intero aumento di capitale della Vicenza, e che probabilmente dovrà fare lo stesso con Veneto Banca. “Considerate che ristrutturare una banca è molto più difficile che ristrutturare un’impresa: il business non tira più, fare banca oggi è una commodity, ci sono mille concorrenti e la gente ti disprezza”. E poi cosa fai, risani una banca e la rimetti sul mercato alla vecchia maniera, con gli sportelli e tutto il personale mentre siamo in piena rivoluzione Fintech? Auguri di cuore ad Alessandro Penati, presidente di Quaestio, Sgr che gestisce Atlante. Ieri peraltro Carlo Messina, ad di Intesa Sanpaolo, ha detto che la sua banca non intende superare il miliardo di euro già accordato al fondo Atlante aggiungendo che “noi non siamo i salvatori del sistema bancario italiano”.
La morale che si può trarre da queste baruffe è duplice. La prima è che i veneti hanno fregato i veneti. Qui non ci sono napoletani o “foresti” in combutta per spremere l’operoso nord-est. Si sono rovinati con le loro mani perdendo le ultime due banche di stazza, dopo l’inabissamento dell’Antonveneta finita a Siena. La seconda, continua Bolognini, è che “la mission di Atlante, fare la holding delle banche rotte, arrivati a questo punto è sicuramente necessaria ma è figlia di un gravissimo ritardo delle autorità nazionali, di governo e di vigilanza, tipico italiano”. Siamo un paese abituato a far marcire le cose, che arriva sempre all’ultimo minuto confidando nello stellone. “Un aumentino di capitale qui, un rappezzo dei soci là, e tutto si aggiusta. Ogni tanto riesce il miracolo come con Expo, ma con la finanza è più difficile”, conclude Bolognini. Per questo andava fatta la bad bank 3-4 anni fa sul modello spagnolo, per evitare di aprire la scatola e continuare a trovare problemi, come un’orrenda matrioska…
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