Chi predica ai predicatori? Domanda su islam e carceri
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In prigione si allena l’estremismo, dice Orlando. Allora al governo conviene fare luce su un’intesa con l’Ucoii
di Marco Valerio Lo Prete | 26 Marzo 2016 ore 06:04 Foglio
Roma. E’ il momento di un’intesa tra stato italiano e comunità islamiche. Anzi no, meglio ancora: diamo l’otto per mille alle moschee. Da giorni si rincorrono proposte, a volte cervellotiche, tutte unite dalla convinzione naïf e costruttivista (nel migliore dei casi) che per il nostro paese sia possibile comprare, con un tratto di penna o con un po’ di soldi pubblici, un modello d’integrazione funzionale. Che eviti di scoprire un giorno la Molenbeek che è in noi, tanto per citare il caso di un quartiere europeo in cui vigono regole altre da quelle dello stato di diritto e della democrazia liberale. Con tale obiettivo in mente, ogni sforzo di creatività è benvenuto, ben inteso, specie se esula dal solito vaniloquio degli appelli all’unità o di quelli a continuare a vivere come abbiamo sempre fatto. Si potrebbe partire, per esempio, dall’analizzare ciò che è stato fatto finora in Italia a proposito di integrazione, verificare genesi ed efficacia di queste misure.
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Si prenda il caso delle carceri. Intervistato mercoledì scorso dal Foglio, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha osservato che “il carcere è un luogo dove la propaganda d’odio trova amplissima audience”. “Il rischio” di radicalizzazione dei detenuti di fede islamica “esiste”: “Noi garantiamo l’accesso al culto nelle carceri. Si è dimostrato che dove questa possibilità è negata c’è più probabilità di radicalizzazione. Ma controlliamo e vigiliamo sull’attività di culto”. Circa 10 mila detenuti nel nostro paese provengono da paesi islamici, ha aggiunto il ministro, su 54 mila detenuti complessivi. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) ha fatto sapere che sono almeno 200 gli osservati speciali negli istituti penitenziari del nostro paese. Sull’analisi, insomma, l’esecutivo è chiaro. Quando si tratta però di garantire l’accesso al culto in cella, tutto si fa più difficile. A volte inspiegabile. Alla fine dello scorso anno, il ministero della Giustizia decise che sarebbe stato utile superare la situazione, durata a lungo, in cui era rimesso al buon cuore dei singoli direttori di carcere far accedere un imam dove ce ne fosse bisogno. Superare quello status quo va bene, ma in quale direzione? Il caso ha voluto che il 5 novembre 2015 – cioè a pochi giorni dall’attacco terroristico di Parigi che ha fatto 130 morti, e dunque prima che si tornasse a discutere in maniera approfondita di terroristi made in Europe – il mistero della Giustizia e il Dap abbiano deciso di indicare una direzione di marcia. I media generalisti non ne hanno praticamente discusso prima, né parlato dopo.
Il Parlamento della Repubblica non risulta che ne abbia nemmeno dibattuto. Eppure la scelta del ministero non è stata di poco conto: ha deciso infatti di firmare un “protocollo d’intesa” con l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii). Sarà quest’ultima, dunque, a stendere una lista di possibili ministri del culto e mediatori culturali. Per certo si tratta di una vittoria politica dell’associazione islamica che è solo una fra le tante esistenti ed è considerata dagli osservatori come orbitante nell’alveo dei Fratelli musulmani, accusata in passato di ambiguità: così ottiene un forte riconoscimento istituzionale. Perché e con quali criteri si è deciso di “appaltare” alla sola Ucoii le selezioni per un ruolo tanto delicato nelle carceri italiane? Non sarebbe stato meglio rivolgersi a tutta la Consulta per l’Islam italiano, più ecumenica e con un’intesa già in essere con il ministero dell’Interno? E’ sufficiente dire che l’Ucoii ha i numeri dalla sua parte, in termini di moschee e imam sul territorio? Educazione e controllo dei predicatori si possono gestire a colpi di maggioranza? Meglio discutere, pubblicamente, di chi predicherà ai predicatori.
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