LA GUERRA IN LIBIA? COLPA DEI MEDIA
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La crisi libica sta avendo in Italia conseguenze in parte prevedibili e in parte del tutto inaspettate
di Gianandrea Gaiani7 marzo 2016, pubblicato in Editoriale AD Analisi difesa
La crisi libica sta avendo in Italia conseguenze in parte prevedibili e in parte del tutto inaspettate. Logico che il fallimento (o meglio l’aborto) del governo di unità nazionale di Fayez al-Sarraj influisse sulla disponibilità italiana a farsi coinvolgere in avventure militari. Meno che i vertici governativi, parlamentari e militari se la prendessero con i giornalisti per aver anticipato le possibili opzioni della LIAM (Libyan International Assistance Mission), termine peraltro utilizzato da ministri e ambienti governativi e diplomatici.
La prima bordata contro i media l’ha sparata il 4 marzo Matteo Renzi, secondo l’Ansa furioso per le ricostruzioni di stampa sui piani e i dettagli dell’intervento militare italiano in Libia definite “irresponsabili accelerazioni”.
Il premier è stato seguito dopo poche ore dal Capo di stato maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano, che si è detto “assolutamente sorpreso per le ricostruzioni giornalistiche” precisando che “la linea di prudenza del governo, espressa più volte dal ministro Pinotti è assolutamente chiara e non lascia spazio a dubbi.
Il resto sono solo accelerazioni giornalistiche. Non si può essere leggeri quando si tratta di argomenti tanto seri per la sicurezza del Paese e dei nostri militari”.
Nicola Latorre, presidente della Commissione Difesa del Senato, ha invece detto a Radio 1 che “ci sono state speculazioni sulla questione libica. Sembrava che fossimo pronti a una specie di sbarco in Normandia, cosa del tutto priva di fondamento”.
In pratica a Roma nessuno avrebbe mai parlato di intervento in Libia ma giornali, radio e tv si sono inventati una storia incredibile di truppe pronte a salpare per la “quarta sponda” mobilitando mezzi, navi e aerei.
Eppure negli ultimi giorni indiscrezioni da più parti hanno riferito di piani e forze allertate in concomitanza con le aspettative (ancora ottimistiche) che il governo di unità nazionale libica ottenesse la fiducia del parlamento di Tobruk.
Alcuni giornalisti hanno addirittura avuto informazioni, presumibilmente da ambienti istituzionali, sul numero di incursori dell’Esercito pronti a essere inviati segretamente in Libia dove già operano, con la stessa “segretezza”, forze speciali francesi, britanniche e statunitensi.
Del resto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni da un anno non fa che ripetere quasi ogni giorno che l’Italia aspira a guidare una missione internazionale di stabilizzazione quando sarà in carica il nuovo esecutivo voluto dall’Onu.
Più che con i media, nei palazzi romani dovrebbero prendersela con gli “alleati” americani che sembrano avere una gran fretta di vedere gli italiani in prima linea contro lo Stato Islamico e per raggiungere il loro obiettivo sono pronti a calpestare allegramente quanto resta della nostra sovranità nazionale.
Una situazione imbarazzante che vede da quasi tre mesi Washington “tirare per la giacchetta” Renzi superando ampiamente il limite con scorrettezze e dichiarazioni che avrebbero richiesto almeno una dura reazione diplomatica.
In dicembre Barack Obama negoziò a quattro occhi con Renzi l’invio di nostre ruppe a difesa della Diga di Mosul e poi annunciò la missione italiana cogliendo in contropiede il premier italiano, costretto a raccontare la vicenda a Porta a Porta vendendocela come un buon affare da 2 miliardi di dollari con l’appalto alla Trevi per i lavori di ristrutturazione della diga.
Il contratto all’azienda romagnola però è di meno di 300 milioni e la missione si farà, a quanto pare, solo perché ce lo chiede (o impone?) Obama.
Non paghi, gli “alleati” ci sculacciano nuovamente facendo trapelare al Wall Street Journal l’esito della trattativa segreta con cui Roma autorizza gli USA a far volare (e sparare) sulla Libia i droni basati a Sigonella, ma solo per azioni difensive.
Così da un lato gli americani ci fanno apparire belligeranti (cosa che Roma ha finora sempre accuratamente evitato rifiutando l’impiego di aerei armati e assetti da combattimento), esponendoci ulteriormente al rischio di rappresaglie terroristiche che negli ultimi mesi non hanno risparmiato nessun Paese che abbia iniziato a combattere lo Stato Islamico o abbia accentuato le operazioni militari.
Dall’altro, attraverso il WSJ, gli USA criticano l’Italia per aver posto limitazioni all’impiego dei velivoli basati a Sigonella auspicando che vengano tolte le limitazioni.
Ce n’era già abbastanza per alzare la voce ma il segretario alla Difesa Ashton Carter ha voluto ricordare al mondo che noi vogliano comandare una missione multinazionale in Libia e che loro ci appoggiano senza esitazioni.
L’ultimo tirata alla giacca a Renzi l’ha data l’ambasciatore a Roma, John Philipps, dichiarando in un’intervista al Corriere della Sera che gli statunitensi si aspettano che l’Italia mandi in Libia fino a 5 mila militari.
Sarebbe bello capire a fare che cosa, considerato che l’Italia non intende muovere guerra allo Stato Islamico e non ci sono al momento le condizioni politiche per un impegno militare di supporto alle istituzioni libiche.
La “sparata” di Philipps (nella foto a sinistra), che si atteggia a “commander in chief” italiano, è qualcosa di più di un’ingerenza e avrebbe dovuto indurre i vertici nazionali a dare una bella strigliata ai nostri “alleati” invece di prendersela con i giornalisti.
Magari qualche lamentela romana è giunta alle orecchie di Obama o di John Kerry che forse hanno indotto Phillipps a giustificarsi.
Oggi una nota dell’ambasciata di via Veneto ha precisato infatti che i commenti dell’ambasciatore “sono stati citati in modo improprio” da alcuni mezzi di comunicazione. Anche per Phillips è tutta colpa dei giornalisti italiani.