Fatemi ubriacare con Marchionne
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Prendere un cesso italiano, comprarne uno americano sulla fiducia, intortare i massoni di Washington, cambicchiare l’intorpidita Italia, e tutto partendo da Chieti non Mediobanca. Oltre Rcs. Storia di Sergio, dreams of my managers
di Giuliano Ferrara | 04 Marzo 2016
E’ di Chieti per nascita, e questo lo sanno tutti. E’ canadese d’adozione, e questo lo sanno tutti. E’ svizzero di residenza, Canton de Vaud, e questo lo sanno tutti. Non si intendeva di automobili, ma di diritto finanza e management, e questo lo sanno tutti. In poco più di dieci anni, chiamato da Umberto Agnelli alla guida della Fiat mezza decotta, ha comprato la Chrysler, mezza decotta e anche di più, con una trattativa fantastica, mediata da Obama e dalla sua amministrazione neonata, e in parte l’ha comprata con i quattrini di una superpenale pagata da General Motors per non aver mantenuto la promessa di comprarsi Fiat, e questo lo sanno tutti. Ha risanato e rimesso in piedi tutto quello che ha toccato, nonostante ovvii limiti nelle strategie di investimento e di prodotto, e questo lo sanno tutti. Ha lasciato ai sindacati italiani la tv e i talk-show, mettendoli in minoranza nelle fabbriche; quelli americani, che sono meno classisti ma pragmatici ossi duri e la tv la guardano la sera sonnecchiando, li ha dovuti comprare a caro prezzo trattando su salari e condizioni di lavoro, e questo lo sanno tutti.
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Uscendone senza pietà, ha liquidato l’associazione padronale pigra e consociativa di cui Gianni Agnelli fu presidente quando venne firmato il patto scellerato sulla scala mobile dei salari, che annientava la contrattazione aziendale all’americana e eguagliava o appiattiva meriti funzioni professionali e redditi, e questo lo sanno tutti. Ha indotto un presidente del Consiglio a dire per la prima volta: non lamentatevi della cattiveria della Fiat verso il paese che è stato tanto buono e generoso con essa, domandatevi che cosa il paese può fare per non danneggiare il patrimonio d’industria e lavoro che è la Fiat, e questo lo sanno tutti. Ha sbaragliato un establishment che lo detestava e contava sui suoi nemici di classe per fotterlo; e ai capitalisti della chiacchiera e del prodotto rifinito in boutique non sono restate, dopo di lui, che vecchie abitudini viziose, e questo lo sanno tutti. Ora, anche grazie a lui e alle sue scelte strategiche, la famiglia di riferimento si internazionalizza, compra l’Economist e colloca la Stampa nel gruppo Espresso, e questo lo sanno tutti. Indossa maglioni che secondo foto recenti potrebbero essere non già del banale cachemirino ma dell’eroico marchio di lana shetland, e questo lo sanno proprio tutti.
E’ il riformatore segreto di questo paese. Secondo Marco Valerio Lo Prete, quanto a struttura del potere, a ruolo dei mercati, a integrazione globale di sistema, quanto a innovazione nel modo di essere della borghesia imprenditrice, ha fatto più lui di cento giunte della Confindustria e di cinque governi messi assieme. E’ un superman. Con Renzi sindaco aveva fatto una clamorosa litigata, e di sicuro ci sarà stato di mezzo il sulfureo Diego Della Valle, capintesta tra quelli che lo hanno disprezzato e denigrato, ma con Renzi pimpante a Palazzo Chigi non fanno che andare a letto insieme, cinici e spensierati, con grande scandalo della gente bene. Fummo marchionnisti da sbarco in tempi non sospetti, denunciavamo l’assedio goloso dei rottamandi al provinciale fattosi attore mondiale e Principe nuovo dell’automobile: era sotto il torchio dell’abile Mucchetti, subiva le geniali intemperanze di Riccardo Ruggeri, la stampa compresa la sua lo guardava a distanza quando non lo combatteva ideologicamente, non c’era salotto buono che non irridesse questo burino internazionale, questo ringard, questo goffo avvocato-manager che non ideava nuovi modelli di auto ed era tutto fuffa e finanza, e che si sperava sarebbe stato sistemato ben bene dal celebre oratore della Fiom, il focoso eruttivo Landini. Non è andata così. Poi magari Marchionne fallirà, sbaglierà, sarà congedato da un sussulto superlobbistico, chissà.
Intanto però bisogna ammettere che Marchionne ha surclassato il surclassabile. Come? Bè, adesso vogliamo sapere troppo. Darei tutto quel che ho, tranne mia moglie, mio fratello, la tata e le mie canuzze, per passare una notte da ubriachi con l’avvocato Marchionne, mentre il senatore Mucchetti ci guarda col naso schiacciato dalla vetrina del ristorante come la piccola fiammiferaia, magari anche a Chieti, ma vanno bene Ginevra o Detroit o Montréal (il nostro è anche parente di Barney Panofsky): alla quinta bottiglia conto mi venga spiegato nei dettagli come si fa a prendere un cesso italiano, comprarne uno americano sulla fiducia, intortare tutta la massoneria obamiana di Washington, convincere i futuri elettori di Trump, spendere i loro soldi per poi restituirli, cambicchiare un bel po’ l’intorpidita Italia, e tutto partendo da Chieti anziché da Mediobanca o da Wall Street. Dreams of my fathers, narrava Obama. Dreams of my managers, dico io.
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