L'ipse dixit di Nichi Vendola sul corpo delle donne
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Negli ultimi anni, Nichi Vendola si è speso tanto contro la mercificazione del corpo delle donne. Senza pensare, forse, che un giorno vi avrebbe fatto ricorso per dare alla luce il suo magnifico figlio in California. Ecco una breve carrellata delle sue dichiarazioni sulla mercificazione del corpo delle donne
di Redazione | 02 Marzo 2016 ore 14:50
Negli ultimi anni, Nichi Vendola si è speso tanto contro la mercificazione del corpo delle donne. Senza pensare, forse, che un giorno vi avrebbe fatto ricorso per dare alla luce il suo magnifico figlio in California. Ecco una breve carrellata delle sue dichiarazioni sulla mercificazione del corpo delle donne.
Il nostro compito fondamentale anche quando facciamo politica è educare le giovani generazioni al culto della bellezza. E la bellezza non sono le giovani prostitute che vengono dall’Albania, signor Presidente del Consiglio. Volgare! Volgare! Volgare! Bisogna avere rispetto di povere donne prigioniere di una tratta infame. Un establishment da escort ci ha abituato anche a questo degrado della vita pubblica. Vergogna! Questa è la cosa di cui bisogna vergognarsi, non avere rispetto delle donne, della loro dignitià, della loro sensibilità, immaginare che siano carne da macello, che siano escort, corpi per mercimonio!
Febbraio 2010
Siamo tornati a un punto in cui la libertà di cui si parla è leggera e di facili costumi, è la libertà documentata da Lorella Zanardo nel suo meraviglioso video “Il corpo delle donne”, è la libertà dello stupro che vige nei codici quotidiani e ordinari della tv, che impera in tutte le pubblicità, che impera nelle trasmissioni di intrattenimento domenicale, la libertà di marchiare come se fosse un prosciutto il sedere di una donna il cui corpo denudato viene tenuto in un angolo di uno studio televisivo che pare abitato da un pubblico di sadomaso-deficienti.
Giugno 2010
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Ma anche e soprattutto libertà dall’oppressione e dalla miseria di un “ordine del discorso e del simbolico” che è impregnato di maschilismo, di sessismo, di plebeismo piccolo-borghese, di un virilismo esibizionista e impudico, che ha teorizzato la cooptazione della donna in quanto decoro o più modernamente in quanto quota, che ha continuato a ignorare il mondo duale dei generi sessuati. Bisogna segnare una linea di demarcazione con l’epoca dell’umiliazione pubblica e istituzionale del corpo delle donne, della loro competenza, della loro fatica. Bisogna imparare dal coraggio di un genere che ha saputo indagare sui propri desideri e sulla propria vicenda a cavallo tra il pubblico e il privato, spesso sospeso in uno spazio compreso tra i rantoli del patriarcato e lo stupro nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Libertà dalla dittatura della forma di merce, del valore di scambio, del feticismo del denaro: come si fa a immaginare che sia moderno ed elegante trasformare un diritto pieno in un simulacro crepato, il diritto ad essere reintegrato sul posto di lavoro se si viene licenziati senza giusta causa diventa diritto ad un indennizzo. Scambiare soldi con diritti, ancora uno scivolamento, un abbassamento della soglia delle tutele, una involuzione del lavoro che torna ad essere nudo, pura merce, merce povera.
Il Belpaese è diventato progressivamente un vuoto a perdere, la coscienza storica che aveva accompagnato le culture politiche nella ricostruzione post-bellica è stata a poco a poco surrogata da un revisionismo pettegolo e strapaesano, la nozione di bellezza – così drammatica, così sorgiva, così gravida di passioni – che aveva agitato la tavolozza dei pittori e il pentagramma dei musicisti viene ridotta alle curve delle veline, viene venduta a spot dai trafficanti di surrogati di felicità, la cultura diviene un mercato colonizzato dal pensiero unico del sesso abbinato al denaro e al potere, un feticismo incolto irrompe nel nostro immaginario già inaridito dalla penuria di qualità del lavoro
Ottobre 2012
Alle donne è toccato il compito di scuotere dal suo comodo torpore il vocabolario della conservazione maschile, l’individuo/individua è la persona col suo genere e con la sua singolarità irriducibile, non c’è un magma semantico in cui inghiottire la libertà delle donne. Il genere femminile si è nominato, con dolore e ricchezza culturale, ha scavato nella propria genealogia, ha riletto il mondo e la storia con uno sguardo nuovo, poi ha rotto la storia del mondo. Ma anche questo, che pure a sinistra si può dire, viene poi sbrigativamente assunto come spunto per la cooptazione delle donne negli spazi di potere oppure come sanzione penale per le molestie e la violenza contro le donne. Pensare le donne come se fossero un sindacato, solo questo sappiamo fare? Negoziare una moderata cessione di sovranità? E spargere il seme della solidarietà, affinché i maschi non molesti possano rapidamente voltar pagina? E se invece dovessimo tornare sul luogo del delitto, a scrutare le tracce dell’assassino seriale di donne, se ragionassimo persino sui significati reconditi di ciascuna variante di quel repertorio di scempio del corpo femminile, di soppressione dell’autonomia femminile, correremmo forse il rischio di sentirci in qualche oscura maniera in uno scomodo identikit? Forse c’è una violenza di genere depositata nel nostro inconscio, nella nostra memoria remota, forse dovremmo mettere a fuoco la natura del reato, e vedere lì dentro, in quel buio, in quella onnipotenza cieca di un maschio proprietario e assassino, un riverbero, un epifenomeno, un’immagine della nostra cultura generale, che proprio sul nodo vità-proprietà e sesso-denaro-potere costruisce stili di riproduzione sociale.
Gennaio 2014
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