Esclusiva. In Kuwait nella base da cui partono i nostri aerei spia contro Is
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Nel sud del paese un contingente italiano collabora con gli americani per individuare i target dello Stato islamico
La base di Ahmed al Jaber, nel sud del Kuwait (foto di Daniele Raineri)
di Daniele Raineri | 26 Febbraio 2016 ore 06:20 Foglio
Kuwait meridionale. Il comandante dell’aviazione kuwaitiana, il generale Abdullah al Foudari, spiega al Foglio come sono organizzate le operazioni aeree degli italiani che hanno base nel paese del Golfo per partecipare alla coalizione internazionale contro lo Stato islamico. Il contingente, quasi duecento persone, è diviso in due tronconi: due droni Predator non armati sono al nord, nella base di Ali al Salem, vicino al confine iracheno – sono più lenti in volo e sono quindi piazzati più vicini alle aree da sorvegliare, che cominciano all’altezza della capitale Baghdad, quindi al centro del paese. Quattro Tornado sono qui, al confine sud, nella base Ahmed al Jaber, assieme a un aereo cisterna per il rifornimento in volo che, dice il generale arabo, ha un ruolo strategico perché cambia il modo di pensare le operazioni aeree. Entrambi, Predator e Tornado, rispondono alla stessa richiesta, portano in volo sopra il territorio occupato dallo Stato islamico un crocchio di telecamere che cattura in video quello che succede sul terreno. Le immagini possono essere usate nella sorveglianza dei cosiddetti High Value Target, i leader dello Stato islamico che più contano nella catena di comando del gruppo. I quattro Tornado usano per la ricognizione un pod attaccato alla carlinga che è lo stesso usato dai quattro caccia Amx che a metà gennaio il governo italiano ha spostato nella base aerea di Birgi, vicino Catania, per effettuare voli di ricognizione sopra la Libia. Il Kuwait per la Coalizione e per gli aerei italiani che ne fanno parte è come la Sicilia: un ultimo lembo di terra sicura da dove affacciarsi sopra un territorio che è necessario tenere sotto sorveglianza. “Questa è la guerra come si fa oggi, non ci sono più nemici convenzionali. L’ultimo conflitto combattuto nel modo classico fu qui in Kuwait nel 1991, per respingere le divisioni di Saddam Hussein”, sospira il generale, che quell’anno, da pilota, fu costretto a bombardare la base dove siamo seduti perché era occupata dagli iracheni. Nei corridoi del comando, alcuni piloti italiani nelle tute di volo kaki parlano di un atterraggio in Iraq a Baghdad da fare oggi (venerdì 26) e della necessità di chiedere documenti all’ambasciata italiana, il che sarebbe fuori da questo schema consueto: decollo in Kuwait, ricognizione e sorveglianza dall’alto in Iraq in volo sopra il territorio dello Stato islamico, ritorno in Kuwait. I Tornado si alzano in missione tutti i giorni, uno imbocca la pista e decolla anche mentre parla il generale arabo, ma per ragioni di sicurezza non è possibile scattare foto.
La base di Ahmed al Jaber, nel sud del Kuwait, da dove partono gli aerei spia italiani per sorvolare le aree dell'Iraq in mano allo Stato islamico. Foto di Daniele Raineri.
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Durante la guerra convenzionale del 1991 i giornali scrissero che i piloti della Coalizione avevano soltanto l’imbarazzo della scelta quando si trattava di trovare bersagli: l’autostrada che porta verso nord, verso l’Iraq, si trasformò – si disse – in un videogioco. Lo scenario oggi è opposto. Le informazioni sui possibili obiettivi scarseggiano, gli aerei americani tornano alle basi senza avere completato le missioni in un numero importante di casi, per ogni missione d’attacco c’è molto più tempo da consumare in ricognizione.
Gli aerei italiani sono parcheggiati alla fine di un rettangolo di asfalto assieme ai velivoli usati dalle altre forze della Coalizione (sei jet canadesi sono andati via la settimana scorsa) in una sequenza così lunga che per percorrerla bisogna salire in auto: ci sono quattro C-130 da trasporto, una quindicina di F-18 kuwaitiani, almeno quattro V-22 Osprey, che hanno anche eliche in verticale perché sono un ibrido tra l’aeroplano e l’elicottero. Questi ultimi sono usati anche per le operazioni delle forze speciali e per le missioni di salvataggio nel caso un pilota precipiti.
Perché i mezzi e le squadre di salvataggio americani sono così lontani dalle possibili zone di pericolo, non sarebbe meglio sistemarli più vicino? Da qui a Tikrit, per fare un esempio, è un’ora di volo. C’è prima da attraversare il Kuwait e poi tutto il sud dell’Iraq.
Un ufficiale americano che comanda queste missioni dice al Foglio che le squadre sono sparpagliate in tutte le basi aeree attorno al teatro di guerra, ma non all’interno dell’Iraq, perché in quel caso la presenza americana si amplierebbe, servirebbero anche altri soldati per far funzionare le basi allargate. “Politics”, dice, e l’Amministrazione preferisce di no (in questi giorni in America si sta discutendo la possibilità di aprire nuove basi in Iraq).
La base è un poligono molto irregolare nel deserto, dal piattume non si alzano punti di riferimento, se non quelli artificiali: a nord c’è il campo petrolifero di Burgan, il più grande del paese, e per questo a tratti si vede un filo di fumo nero prodotto da qualche sfiato del greggio che brucia, ma si confonde con facilità nel cielo. In direzione opposta, vicino alla linea dell’orizzonte, ci sono alcuni vecchi hangar, “hanno ancora i buchi lasciati dalle bombe del 1991, durante la guerra contro Saddam Hussein”, dice il generale al Foudari. Poi, circondato dagli attendenti, mostra da vicino un caccia americano F-18 Hornet con i colori del Kuwait dentro un hangar. Un suo pilota elogia l’evoluzione successiva, il super Hornet, che in questo momento può essere considerato un rivale per l’industria italiana. Non si parla però, in modo esplicito, del contratto enorme ancora in sospeso per l’acquisto da parte del Kuwait di 28 caccia Eurofighter, un affare da otto miliardi in cui è parte anche Finmeccanica, che secondo le stime del Sole 24 Ore prenderebbe il 50 per cento.
Gli ufficiali dello staff del generale raccontano che quando il ministro Roberta Pinotti è venuta in visita in Kuwait nel luglio scorso ha portato in regalo, nelle due basi dove sono gli italiani, l’equipaggiamento per costruire due forni da pizza. “Su a nord hanno chiesto in uso uno spazio supplementare, sempre per cucinare”, dice al Foglio il generale Mohammed, comandante della base di Ali al Salem. “Quaggiù invece il forno era vicino alla pista, perché lavorano a ciclo continuo e non possono allontanarsi, ma adesso abbiamo dovuto spostarlo più indietro per ragioni tecniche”. “E’ una pizza gigante, quando me l’hanno offerta la prima volta credevo fosse da dividere tra tutti, invece mi hanno spiegato che era per me”, aggiunge un altro membro dello staff. Duole dirlo, per chi soffre i luoghi comuni sugli italiani all’estero, ma questo tema della cucina è stato sollevato in separata sede anche dall’ufficiale americano che fa parte delle squadre di recupero e salvataggio. “Ho portato controvoglia due dei miei, al ritorno mi hanno detto: mai più pizza americana”.
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