Perché nonostante le intercettazioni l’America continua a non capire la politica europea

Ormai è assodato che l’America intercettava (forse continua ad intercettare) le conversazioni dei leader europei. Quel che resta difficile da capire è perché lo abbiano fatto

di Redazione | 24 Febbraio 2016 ore 14:24 Foglio

Ormai è assodato che l’America intercettava (forse continua ad intercettare) le conversazioni dei leader europei. Quel che resta difficile da capire è perché lo abbiano fatto. Le scuse biascicate dall’ambasciatore, che connette gli ascolti esclusivamente a pericoli per la sicurezza nazionale americana sono evidentemente fandonie. Pensare che Silvio Berlusconi o Angela Merkel o Nicolas Sarkozy rappresentassero una minaccia per l’America è semplicemente ridicolo. Forse la ragione è più semplice e addirittura banale: gli americani non riescono a capire le dinamiche della politica europea, per non parlare di quella italiana. Anni fa lo disse chiaramente Henry Kissinger, al quale veniva mal di testa quando sentiva i ragionamenti sottilmente allusivi di Aldo Moro. Quando è scoppiata la rissa tra l’asse franco-tedesco e Berlusconi gli americani probabilmente si sono domandati che cosa ci fosse sotto, perché mai i leader di tre formazioni moderate al governo in paesi decisivi fossero arrivati ai ferri corti. Pensavano che ascoltando le loro conversazioni avrebbero capito, ma naturalmente non è stato così, perché in realtà non sono solo loro a non trovare un filo logico nelle controversie europee, ma gli stessi responsabili dei governi.

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Anche in una situazione di incertezza e di confusione (che allora era solo europea e che ora con Barak Obama si è estesa alla stessa America), però, le agenzie devono continuare il loro lavoro, che consiste non solo nel raccogliere informazioni ma anche nell’esercitare influenze, coltivare relazioni creare rapporti. Il fatto è che lo fanno in concorrenza tra loro. A grandi linee si può dire che l’Fbi si interessa soprattutto alla lotta contro il narcotraffico, il che le ha consentito di stabilire rapporti, talora assai stretti, con settori della magistratura italiana, il che, vista la politicizzazione di molte procure, ha tracimato dal terreno proprio della collaborazione investigativa a quello della partecipazione a campagne politiche di delegittimazione. La Cia, per parte sua, ha come compito fondamentale la lotta contro il terrorismo, il che la mette naturalmente in contatto con i servizi di informazione e di sicurezza di tutti i paesi alleati (e attraverso infiltrati anche con quelli ostili). I rapporti tra questi servizi e settori della magistratura, come dimostra il caso Abu Omar tornato in questi giorni sotto i riflettori a causa dell’assurda sentenza della corte europea dei diritti umani, spesso in Italia sono conflittuali, il che in qualche modo si intreccia con la atavica reciproca diffidenza tra le due principali agenzie americane. L’Italia da questo punto di vista sembra il partito comunista americano, del quale Andrej Gromiko diceva con sarcasmo che era costituito da due correnti principali, quella della Cia e quella del Fbi, con un’esigua minoranza di agenti del Kgb.

A parte le illazioni e i sarcasmi, quello che è accaduto è solo un episodio, anche se molto grave sul piano delle relazioni internazionali, di una serie di operazioni di influenza sulle scelte italiane che non esprimono neppure un disegno univoco, e che anche per questo possono provocare disastri.

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