Quanto è costato il grillismo all’Italia
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Grillo sta foraggiando una generazione di eterni arrabbiati, cittadini emotivi con vene del collo gonfie, che odiano soldi e privilegi ma parlano solo di soldi e privilegi. Bilancio? Costi alti, benefici zero. Diario di un quasi grillino (quasi)
di Antonio Pascale | 24 Febbraio 2016 ore 06:18
Vorrei raccontare di un uomo di orientamento progressista, nonché acceso sostenitore delle (buone) deliberazioni ottenute grazie al metodo scientifico, che subisce un improvviso e spiazzante cedimento nei confronti di Beppe Grillo. Quell’uomo sono io. Certo non ne vado orgoglioso, ma il punto è proprio questo, la fenomenologia di Beppe Grillo e per associazione del Movimento pentastellato può (ho scoperto) coincidere con la fenomenologia del sottoscritto. Devo dunque domandarmi: come mai questo disdicevole per quanto momentaneo afflato? Devo farlo, perché sono convinto (da progressista e sostenitore del metodo ecc. ecc.) che l’ingresso in politica del Movimento abbia portato più costi che benefici. La costante opera di semplificazione – e qui anticipo la tesi – portata avanti dal Movimento su tante questioni sensibili, l’assenza di una pur larvata soluzione di compromesso, costituisce un serio limite alla buona deliberazione. Voglio dire, siamo in una società complessa, con molti attori sulla scena, ci confrontiamo inoltre con partner nazionali e internazionali, le innovazioni culturali sono ampie ed estese, bisogna maneggiare strumenti diversi, e con flessibilità valutare caso per caso, analizzare costi e benefici, insomma ci vogliono attente misurazioni. Invece, il modus operandi del M5s sempre teso (come diceva quel politico interpretato da Verdone) a semplificare le questioni sta foraggiando una generazione di eterni arrabbiati, cittadini emotivi sempre con la vena del collo gonfia, che odiano i soldi, i privilegi ma parlano solo di soldi e di privilegi, e restringono di fatto l’orizzonte politico. Così un complesso e affascinante meccanismo di pratiche di cittadinanza viene costantemente ridotto a due o tre motivi di fondo. Certo, al netto dei costi, visti i risultati, la suddetta opera di semplificazione è anche, per ora, il miglior viatico per raggiungere potere e mantenerlo. Comunque, questa storia inizia da lontano.
Il 14 agosto del 2007, Pietro Ichino così commentava la pubblicazione del libro “Schiavi moderni” a cura di Beppe Grillo: “(il libro) si apre con queste parole: la legge Biagi ha introdotto in Italia il precariato (…) ha trasformato il lavoro in progetti a tempo determinato… la cosa interessante – continuava Ichino – è che questo libro raccoglie centinaia di testimonianze e proteste contro il lavoro precario delle quali non una sola è imputabile a una situazione generata dalla legge Biagi, sfido Beppe Grillo a un confronto pubblico su questo punto”. L’articolo proseguiva cercando di dimostrare che gli effetti della legge Biagi sulla ingiusta condizione di precariato sono falsamente (e pericolosamente) sopravvalutati. In realtà, affermava Ichino, la legge Biagi ha semmai introdotto una disciplina restrittiva di quei rapporti di lavoro precario e che, dall’entrata in vigore della legge Biagi, quei rapporti, lungi dall’aumentare, sono invece diminuiti. La cosa più interessante dell’articolo di Ichino era (dato per scontato che il lavoro precario è per Grillo, per Ichino, per tutti e pure per me, una condizione ingiusta e poco sostenibile) proprio il tentativo di sfidare Grillo a dimostrare tecnicamente e pubblicamente quanto affermava. Di sostituire cioè, la sua verve comica attoriale, generatrice di metafore che gonfiano i nostri petti, con una capacità analitica, magari più fredda ma si sperava più efficace (perché precisa). Ho aspettato per settimane la risposta di Grillo e finalmente il giorno del V-Day, s’era a settembre, al telegiornale ho sentito Grillo affermare che (cito a memoria) “quel professorino, come si chiama, Chino… fichino, dovrebbe avere il coraggio di venire in questa piazza e insomma… vaffanculo…”. A parte il gioco della storpiatura del nome che accomuna Grillo a Fede, al tempo, rimasi parecchio insoddisfatto, ero sicuro di poter definire la risposta di Grillo tecnicamente vicina a quel me ne frego che speravo fosse uscito di scena per sempre.
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Contestazione: ti sei rammollito? Mica è un convegno universitario? Oh! Si tratta di piazza, comizi, cuori da sostenere, adrenalina che deve scorrere a fiumi. Vuoi dire che Grillo ha introdotto la parolaccia in politica? Come arma elettorale? E i leghisti allora? Il gesto dell’ombrello di Bossi alla socialista Boniver? E poi ti sfugge il senso: il vaffa-day serviva a delegittimare (con una pernacchia, un insulto) una classe politica che insultava i cittadini. Chi di spada ferisce, ecc. Va bene, lo so che la piazza estremizza i gesti, tuttavia non mi smuovo, con quel vaffa-day si inaugurava un metodo di lavoro sistematico: la tecnica del riflettore. Cioè illuminare nell’avversario solo ciò che è ridicolo e scostante, comico e grottesco e lasciare in ombra tutto il resto. Non che questo metodo l’abbia inventato Grillo, in epoche agitate rispunta sempre, tuttavia, con lui è diventato più diffuso, quasi un cavallo di battaglia, e così blog, giornali, commenti hanno virato in questa direzione: un riflettore quotidiano che rende difficile l’analisi ad ampio raggio. Da quel giorno, dal vaffa-day, ho cominciato a vedere fisicamente quei cittadini che si riconoscevano nel Movimento. Mi sono chiesto allora: a chi assomigliano? Ai leghisti. Sì d’accordo, anche loro, all’inizio, sembravano beceri e sgrammaticati, gridavano, insultavano però riuscivo a inquadrarli. Anzi, per ideologia e temi affrontati mi sembravano affini a certi compagni di sinistra. Quelli un po’ nostalgici, magari in agricoltura rimpiangono la tradizione. La tradizione è sempre millenaria e dunque carica di significati, la modernità è sempre omologante e corruttrice di antichi saperi. I leghisti combattevano per la tradizione del loro territorio (contro l’emigrazione, la globalizzazione) e certi compagni reazionari facevano lo stesso, magari lo scontro era un po’ più nobile, tipo la musica popolare, i cibi genuini, i piccoli contadini, i locali biologici contro le multinazionali, il mercato, il complotto economico, ma nella sostanza entrambi mettevano dei confini, al mercato, alla globalizzazione: insomma, francamente, e solo su determinati temi, con i leghisti sfogliavo l’album di famiglia.
Poi Bossi perlomeno era antifascista. Si è preso anche lui la sua dose di insulti in una manifestazione del 2 giugno. Quelli che si riconoscevano nel Movimento non riuscivo a catalogarli. Sì, da una parte c’erano molte sfaccettature. Infatti non è giusto prendere e discutere solo dei casi eclatanti, i chip sottopelle e le sirene, le scie chimiche ecc., voglio dire ho incontrato da quel vaffa-day molte persone, alcune colte, moderne, insofferenti a un certo modo di intendere la politica, e altre che invece faticavo a comprendere quindi mi facevo domande: si sono mai occupati di politica finora? Cos’è questo odio verso il mondo? Sono conservatori e progressisti, a favore o contro i matrimoni gay? E la questione immigrati? Non riuscivo a capirlo e forse perché il rumore di fondo che li accomunava – facendo perdere di vista, appunto, le sfaccettature – era proprio il vaffanculo perenne. Quasi ci tenessero a dirmi in ogni momento che stavo parlando con un cittadino che in nome del vaffa godeva di uno statuto privilegiato: una superiorità morale. Non so se a spingerli verso questa direzione fosse un sentimento romantico, l’uomo che lotta affinché i valori dentro di sé (sì certo, puri perché a contatto con la natura) siano finalmente portati alla luce – sconfiggendo così l’oscurità – o fosse semplicemente inesperienza. Penso la seconda, comunque sia i pentastellati sembravano ricattarmi, volevano, in nome della purezza esibita, convincermi che la vecchia politica, cioè giochi di potere, magagne, inciuci, inceneritori, potesse essere davvero spazzata via. Il vaffa era dunque la parola magica per accedere alla dimensione della purezza.
Il fatto è che l’idea di purezza a cascata fa nascere alcuni conflitti niente male. Per esempio, il sistema è corrotto. Va bene. Ammettiamo che lo sia. Ma cos’è il sistema? In molti casi sembrava che il sistema fosse un Ente a sé, una dimensione dotata di vita propria, una specie di Solaris, un oceano gelatinoso, una volta che entri dentro, il sistema ti cambia. Dunque o si abbatte il sistema dall’esterno o non si entra, si resta a margine e lo si ostacola metodicamente. E comunque ci vogliano uomini nuovi per un sistema nuovo. Questi uomini non devono avere contiguità con il sistema, sono cavalieri di nuovo conio, se hanno sbagliato non hanno diritto alla seconda occasione, ebbene questi uomini con disciplina monacale eliminano tutte le tentazioni: riduzione degli stipendi, trasparenza coatta. Ecco però il conflitto: i cavalieri sono sì puri ma costantemente a rischio di peccare. Da qui sia il richiamo continuo alla superiorità morale – bisogna darsi forza, trovare un nemico da vaffa, il nemico esterno fa stringere a coorte – sia la consapevolezza che per abbattere il sistema sei a rischio di corruzione: devi dunque essere sorvegliato e diretto da un altro Ente, che è in alto, incontaminato, dunque più puro. L’Ente ti suggerisce di non fidarti del sistema e allo stesso tempo non si fida di te che vuoi abbattere il sistema. Il risultato di tutto questo? Una continua incessante sfiducia sia nel sistema sia negli uomini che dovrebbero abbatterlo. A volte mi sembrava di leggere quelle terribili tesi alla De Maistre: l’uomo è caduto, dunque corruttibile, tende a peccare e per questo c’è bisogno di un’autorità – alta, inaccessibile, quasi divina – che ne preservi la purezza o quanto meno controlli il tasso di impurità. Bel guaio, e pratico anche: la voglia di purezza nasce dalla sfiducia nel prossimo. Quindi più si frequenta il prossimo, più si dà per scontato che il prossimo tuo è corrotto più devi gridare la tua superiorità, alzare barriere per proteggerti dalle contaminazioni e sottoporti allo stesso tempo ai controlli anticontaminazioni. Ora, pensate a quanto è già complicato, nei fatti, amministrare. Bisogna incontrare il prossimo tuo, sentire cosa vuole, litigare, cercare soluzioni di compromesso, smadonnare, fare cordate, accordi, dotarsi di strumenti, competenza, studiare, ascoltare, far funzionare l’intuito, e un po’ essere visionari, allargare l’orizzonte. E in tutto questo, passo dopo passo, bisogna garantire la purezza del cavaliere che rischia grosso se, appunto, cercando di amministrare applica le suddette procedure. Nei momenti di amarezza politica penso che al contrario questa idea di fondo – l’uomo corrompe quello che c’è di buono nella natura, che già crea link atipici tra destra e sinistra – ha trovato terreno fertile proprio nel M5s che a mo’ di enzima ha moltiplicato alcune procedure, e quindi: il momento è sempre estremo, siamo sull’orlo del baratro, quindi o tutto o niente, le paure dei complotti, gli ostruzionismi, i vaffa urlati con le vene gonfie, la sfiducia preventiva, il nemico esterno, la mania di controllo, tutte le argomentazioni sui soldi spesi e non sull’efficienza della spesa. Tutto questo bailamme alla fine rende proprio inutile la politica. Che in pratica significa cercare di rispondere alla questione posta da Socrate a Eutifrone, sulla natura di ciò che è santo, appunto: è buono perché piace agli dèi o quello che piace agli dèi è buono. Se crediamo che l’etica non stia nascosta in una sfera a sé, in un Ente puro, allora vuole dire che le strutture normative di questa società, saranno del tutto dipendenti dalla nostra volontà. Le norme dunque soggette alla giurisdizione della nostra ragione: dobbiamo scansare, almeno per fare politica, il nichilismo e nutrire un po’ di fiducia in noi stessi e nel prossimo. Finora – nonostante alcuni buoni segnali – il Movimento applica procedure di ostruzionismo. E continuo – visto i recenti avvenimenti – a non capire da che parte stanno, voglio dire, fatte salve le questioni degli sprechi e dei privilegi.
Il problema in fondo è che non basta gridare: un altro mondo è possibile, bisogna dimostrarlo. Il gruppo di architetti che progettarono il monumento commemorativo alle Fosse ardeatine si proposero di costruire qualcosa che non assomigliasse per niente alla grammatica fascista. Non possiamo condannare il regime fascista e nello stesso tempo usare la sua grammatica. Dobbiamo trovarne una nuova. Così dovrebbe essere per tutti quelli che si propongono di cambiare il sistema, così è per il M5s. Queste cose le stavo pensando un giorno. Uno di quei giorni dove va tutto storto. Tanto è vero che sono finito in motorino a piazza Venezia, che era bloccata da due manifestazioni. Avevo un appuntamento ed era tardi. Il chiasso, le urla, la piazza con le vene gonfie, i vigili affranti e stanchi. Mi sono messo in testa di forzare il blocco, sono sceso dal motorino e l’ho spinto a mano, ma mi sono fermato perché un’auto blu, anche essa bloccata nel casino mi ha tagliato la strada. Allora io ho sputato sull’auto blu. Senza enfasi, ma l’ho fatto. E’ uscito uno dall’auto e mi ha urlato: ma che sputa! E io: ma Renzi non ve le ha ancora tolte le auto blu? E dopo ho aggiunto: e mo ve le toglie Grillo. Io poi ho capito, nelle piazze tutti siamo a rischio, perché diventiamo più egoisti, per portare avanti il nostro obiettivo, ci riteniamo servitori di una missione, dunque migliori di quelli che contestiamo. Questa sensazione di purezza da euforia fidelizza il voto ma nella sostanza porta con sé solo gesti dadaisti – se proprio vogliamo nobilitare lo sputo e il vaffa. Cosa chiedo alla politica? Proprio il contrario. Svuotate le piazze dalla rabbia, fate funzionare la città, così da evitare gli sputi e i malesseri perenni, gli egoismi. E’ un compito difficile, infatti vi paghiamo per questo, affinché con animo più sereno possiamo analizzare il mondo che ci circonda, senza riflettori a mo’ di spot e distorsioni varie. In fondo, gli egoisti possono vincere in alcuni gruppi, sfruttandoli, ma i gruppi altruisti vincono sempre sui gruppi egoisti. A questo serve la politica, a far aumentare e funzionare i gruppi altruistici, quando funziona. E con un po’ di fiducia per far girare le cose, si intende.
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