Perché rinunciamo a fare figli
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Madri da paura. Oltre le statistiche ci sono le domande sul futuro, gli egoismi, le ansie, gli ingorghi del femminismo e le irresponsabilità dei padri. Fra punture, camici bianchi e ostinazioni. Un’indagine
Pablo Picasso, “Madre con bambino”, 1902 (Cambridge, Massachusetts, Fogg Art Museum)
di Annalena Benini | 24 Gennaio 2016 ore 06:11
Il sentimento verso i figli, e quindi verso il domani, può prevedere anche l’eventualità delle scarpe rotte e la coscienza della fragilità (prima eravamo pronti a gettarci fra i cannibali, bere acqua dalle pozzanghere, lanciarci dagli aerei, mangiare vermi vivi, dormire a casa di sconosciuti con coltelli fra i denti, adesso per bere un biccher d’acqua abbiamo bisogno di uno sterilizzatore, e gettiamo sulle cose uno sguardo sospettoso che prima non ci riguardava), ma mai mai mai può contenera quest’idea occidentale di appassimento. Appassimento di speranza, vitalità, possibilità, nonostante scarpe sempre asciutte e nuove, incapacità di scegliere il proprio passo: è questo il disegno che compie la paura, girando su se stessa e attorno al resto delle cose della vita, trovando che sia troppo presto, troppo tardi, troppo casino, troppo pericoloso, troppo impossibile. Troppo difficile, dopo, avere tutto, che è poi l’argomento principale del dibattito anglosassone sulla maternità, con tutte le signore del potere che spiegano, con questo senso molto concreto della vita quotidiana, che invece basta lavorare spesso da casa, chiedere sempre aumenti, sposare un uomo servizievole, restare magre. Secondo la storica Marina D’Amelia, che ha scritto anche un libro sull’evoluzione della madre, “c’è nel profondo un conflitto, anche non accettato, tra la libertà della donna e le esigenze di cura: la maternità è anche un evento narcisistico e le donne si sono conquistate molte altre aspettative di gratificazione”. Gli psicoanalisti dicono che vivere un figlio come un ingombro, come un ostacolo alla propria realizzazione, come possibilità di offuscamento di sé ha generato questa donna freudiana innamorata di sé, che quando diventa madre fa molti danni, soprattutto con le figlie femmine: una specie di cannibalessa che svaluta tutto ciò che lei non è.
Invece Giulia ha trentasei anni e vuole un figlio da quando ne aveva diciotto, ma ha paura che poi non le diranno più: quanto sei brava, vieni a progettare anche questo palazzo?, e il suo fidanzato, pochi anni in più, le dice: godiamoci un po’ di tempo noi prima, andiamo a bere un bicchiere, andiamo in Messico a Natale, “e allora anche a me vengono i dubbi, perché lui fa una faccia spaventata”. Ma tu, tu che cosa vuoi? Io voglio farlo con tanta voglia io, ma pure con tanta voglia lui, non con tanta paura noi. Fanno discorsi sensati, parlano di welfare che non c’è e di accoglienza che manca, di uomini che non lasciano il posto alle donne incinte sull’autobus, di capi che le licenziano, di nord Europa più evoluto (“In Olanda la puericultrice va a casa, pagata dallo stato!”), e anche di caviglie grosse e di cellulite, dell’eventualità di impazzire e di perdere il senso dell’umorismo (“e se poi parlo solo di pappe biologiche e di sculture con la pasta di pane?”), ma poi dicono tutti: paura. La parola è sempre: paura. Negata, rimangiata, derisa. “Ma no io non ho per niente paura, te lo giuro, ma quale paura, ho solo paura di diventare troppo ansiosa con un bambino, e poi lui non vuole farlo, ha paura di essere troppo vecchio”. Antonella ha trent’anni e mezzo, il suo fidanzato quarantasei. Per fare un figlio serve una disposizione ad aspettarlo, oltre alla fortuna di riuscire a concepirlo, con o senza l’aiuto e la fatica di aghi, ormoni, insuccessi, ginecologhe che guardano preoccupate il tracciato della tua “riserva ovarica” e scuotono la testa. Serve un uomo (anche se a volte invece non serve, può andarsene a quel paese, ma Elisabeth Badinter, spesso contraria agli uomini e anche ai figli, ha preso atto “di questa irriducibile volontà femminile di condividere con l’uomo e l’universo e i figli”), un uomo che dica: sono qui, però promettimi che smetti di fumare. Sono qui, però giura che non andrà alla Montessori. Sono qui, ci pensiamo insieme. Lo facciamo insieme. Anzi, ora che ci penso, sento che ho le doglie: la psicoanalista Simona Argentieri li ha definiti “padri materni” in un pamphlet pubblicato da Einaudi: uomini dolci e apprensivi che si inchinano davanti a bambini molto accessoriati, li porgono con delicatezza alle madri per l’allattamento on demand (a richiesta), mandano messaggi agli amici: oggi pesiamo sei chili e quattrocento grammi e siamo lunghi cinquantasette centimetri. Ho visto un padre di quarant’anni, al suo primo bellissimo figlio, alzarsi da una lunga tavolata di amici e dire, in una trattoria in Umbria: scusateci un momento, noi andiamo ad allattare, e dirigersi fieramente, moglie accanto e neonato in braccio, verso un luogo più riparato. E uscire di corsa sotto la pioggia, in preda a un impulso irrefrenabile, per andare ad acquistare il maialino divora pannolini, un bidone cilindrico bianco e blu che quando ci getti dentro un pannolino lo comprime. Lui ha preteso il diritto di precedenza sul cambio pannolino, anche di notte, lei glielo ha ceduto volentieri ma adesso è gelosa, dice: ormai preferisci il maialino a me, non ci butti nemmeno più i pannolini per non offenderlo. Lui, che prima del figlio partiva per viaggi solitari, stava giorni senza parlare, faceva a botte allo stadio, scalava le montagne e frequentava suonatrici di flauto con poncho peruviani che dormivano nelle soffitte gelate, adesso ha scelto il riscaldamento a pavimento perché il bambino possa gattonare sereno, e usa ogni sera il mostruoso aspira muco, una cannuccia nella narice del bambino e una nella bocca del padre, perché il bambino dorma sereno, anche se non ha il raffreddore. “La responsabilità verso un figlio si è ulteriormente aggravata”, dice Marina D’Amelia, “si sono modificati i criteri di allevamento di un bambino, gli standard di bravi genitori sono altissimi e costosi, in termini di libertà, denaro, tempo per sé”. Mia figlia quando è nata ha dormito per un anno in una carrozzina in corridoio, poi in un lettino in corridoio, poi in una stanzetta tutta per sé, che infatti ha odiato e tornava sempre in corridoio con i libri accatastati intorno e la polvere a cui non è per fortuna allergica. “Abbiamo paura di un soffio di vento, d’una nuvola in cielo”, scrive Natalia Ginzburg ne “I rapporti umani”, “non verrà la pioggia? Noi che avevamo preso tanta pioggia, a testa nuda, coi piedi nelle pozzanghere! Adesso abbiamo un ombrello. E ci piacerebbe avere anche un portaombrelli, a casa, nell’anticamera”. E pensiamo che senza portaombrelli, senza umidificatore, senza maiale porta pannolini, senza carta da parati con i coniglietti, senza nonni disposti a portarlo a judo e a violino, senza risparmi per farlo studiare a Cambridge, anche, sarebbe da irresponsabili fare un bambino. E’ la nuvola minacciosa dell’accudimento compulsivo, stabilito nei dettagli, amplificato da un’idea affaticata di presente, davanti alla quale anche la più hippie delle amiche si trasforma in una signora del bridge con i capelli cotonati che stringe oscuri rapporti con altre madri ossessive, è questa idolatria competitiva a creare tormenti e senso preventivo di inadeguatezza (“le mie ansie hanno l’ansia”, dice Charlie Brown): un figlio sembra un’impresa per pochi bionici eletti oppure integralisti cattolici, o milionarie annoiate e biologiche. Quando abbiamo perso la leggerezza, lo slancio verso il futuro, quell’allegra tristezza da scarpe rotte indossate con baldanza e sbadataggine? Qualcosa ha gettato in noi le radici della timidezza, il presente non supera la soglia del tempo, e tutto intorno vediamo pericoli, scarafaggi, chiodi arrugginiti, precipizi, violenza, rinunce e inganni anche del cuore. Margherita, che ha avuto il primo figlio a quarant’anni, dopo avere abortito a trenta perché lui era un irresponsabile e lei si sentiva sola, dopo avere detto non avrò più figli perché non me li merito, perché dentro di me i fiori appassiscono e fuori di me non cresce più nulla, ha incontrato un uomo che le si è inginocchiato davanti: voglio una bambina che abbia i tuoi occhi. E lei ha vuto paura. Non dei pannolini e del lavoro, non delle notti in bianco o degli attentati: paura di non essere in grado di volere abbastanza bene a qualcuno a cui sarei stata legata per sempre, ha detto. Paura di sentirmi dentro una gabbia e di impazzire. Ma lui insisteva, voleva chiamare la bambina come sua madre, e una sera dopo una festa lei è rimasta da sola con un’amica, tutti erano andati via, il momento più bello delle feste è quando si resta soli a sparlare, dice Stefania Sandrelli in cucina con i piatti sporchi e gli occhi lucidi ne “La famiglia” di Ettore Scola, e l’amica le ha detto: fallo questo bambino, se non lo amerai lo dai a me, lo amerò io al posto tuo, lo amerò io abbastanza per tutti, io che non li ho fatti i figli perché ho aspettato tanto, troppo, fino a quando quel coglione mi ha detto che aveva messo incinta la sua insegnante di spagnolo. Se non l’ho ucciso, se non mi sono uccisa, potrò amare tuo figlio come se fosse mio.
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Si sono messe a piangere, hanno finito il tiramisù rimasto nei piatti degli altri, hanno bevuto champagne caldo dalla bottiglia, e Margherita ha buttato via la pillola che prendeva di nascosto (a trentanove anni, che la prendi a fare?, le ha detto la sua amica, presuntuosa che sei) ma non succedeva niente. La ginecologa le ha prescritto una serie di analisi e poi le ha guardate con una specie di ghigno. “E’ praticamente impossibile, e più passa il tempo più lo sarà”. Per timidezza, e per quel senso di colpa che le fa dire sempre: me lo merito, per il passo indietro che tengono a volte quelle nate a metà degli anni Settanta (tutta l’autocoscienza delle loro madri, e l’ingorgo del femminismo in provincia, e la sensazione, fin da piccole, di avere un compito preciso: non disturbare), Margherita non aveva mandato al diavolo la ginecologa, anzi si era aggrappata diligente a quelle punture nella pancia, gli ormoni, esaminare l’ovulo, chiedergli come si sente stamattina, sei abbastanza vigoroso per farti fecondare? Vari insuccessi nel giro di un anno, e la fatalistica convinzione che era meglio non disturbare oltre. “Me lo merito”, anche. Così, quando ha avuto un ritardo di diciotto giorni, Margherita ha pensato che era sicuramente “la menopausa precoce”. Sudava, aveva un nodo allo stomaco, una sensazione strana di sdoppiamento, ha anche pensato: sono malata, me lo merito. L’amica l’ha incontrata per un caffè in piazza Farnese e le ha detto subito: quand’è che sei diventata così cretina? Andiamo a fare il test. Quale test? Di gravidanza, ma che cosa ti è successo, hai battuto la testa? No, ma è la menopausa, oppure il cancro. Solo una vera amicizia può passare attraverso il fuoco dei più violenti improperi, e così è stato per loro. Sul test è comparsa una croce blu, identica alla croce blu delle istruzioni: se il risultato è incinta, comparirà una linea blu che incrocia l’altra linea blu. E adesso? E adesso che cosa? Adesso che faccio? Adesso vai dalla ginecologa e le sfasci lo studio e le dici che è una stronza. Ma Margherita ci teneva al suo passo indietro e alla timidezza, così andò dalla ginecologa che cambiò solo un poco la forma del ghigno e le fece l’ecografia in silenzio, poi le disse che comunque c’era un distacco della placenta e doveva mettersi a letto per almeno due mesi, forse tre, “alla tua età rischi molto, poi se tutto invece va bene programmiamo il cesareo”. Margherita ubbidiva, stava a letto e pensava che se lo meritava, e che era meglio non affezionarsi a quei due centimetri dentro la pancia, meglio non pensare al nome, meglio non pensare a niente. Al massimo tornerà tutto come prima, forse dentro di me non deve crescere niente, devo solo aspettare la dissoluzione, però vestita carina, e intanto mangiare biscotti sul divano. Lui, anche dopo aver scongiurato il pericolo dei primi tre mesi, le ha impedito di prendere l’autobus, l’automobile, il taxi, le ha proibito di portare fuori il cane, le ha chiesto di non cucinare, di non lavorare, di non urlare, di respirare piano. Una sera in cui lei ha bevuto un bicchiere di vino, le ha detto: “Ti riterrò responsabile di qualunque cosa succeda a mia figlia”. Allora lei ha raccolto la timidezza, se l’è messa in tasca e l’ha mandato al diavolo, si è accesa una sigaretta ed è uscita di casa a mezzanotte, con il cane che abbaiava di gioia e strattonava il guinzaglio. Il giorno dopo ha cambiato ginecologa. La bambina è nata maschio, e Margherita ha sentito una cosa che si scioglieva dentro, come una gioia forte, come un dolore che scappa via, e giura di aver visto, nella piantina sul davanzale della finestra, un fiore giallo che sbocciava. L’ho visto mentre si apriva, capisci? Ma avevi le doglie, urlavi, deliravi, hai tirato un calcio al tuo fidanzato, te lo sei sognato. Margherita non ha replicato, è ancora timida ma senza più timidezza, e dentro di sé ha tenuto sempre quel fiore giallo che si apre piano, e non c’è nessun’altra strada se non aprirsi, è quello il destino. E’ il destino dei desideri, dei pensieri, del cielo, dell’amore, è il destino della civiltà. Andare avanti oltre quello che conosciamo, oltre il recinto della prudenza e della stanchezza, del ritmo affannoso per cercare il nostro posto e l’equilibrio, e attraversare i momenti di abitudine e compiacimento, senza più uno stupore, solo lamentarsi e preoccuparsi, fare domande sospettose, ostinarsi sui dettagli, sui piccoli desideri, invece che su quelli grandi. Così che i piccoli desideri soffocano senza farsene accorgere quelli grandi, perché nei piccoli desideri parla soltanto la ragione e muove sentenze, disserta, cita studi recentissimi sulla conciliazione di carriera e famiglia, sul ritorno del morbillo in forme pesantissime, sul denaro necessario per portare due bambini al mare a prendere aria, e l’incolumità personale sembra minacciata da questa specie di malinconico cinismo, dall’abitudine alla rinuncia, così che guardiamo i passeggini degli altri, le pance a Parigi, i figli della badante moldava nelle foto in camera da letto, e pensiamo: che coraggio, ma che egoismo, e torniamo alle nostre occupazioni con un senso di fastidio e di tumulto insieme. Un padre di due figli, separato, che adesso ha cinquant’anni e si rotola con loro nella colla e poi nelle piume di piccione e li porta alle feste e fa sculture di pongo e da anni ha le spalle dei maglioni macchiate di bava di bambino addormentato, dice che era convinto che “mettere al mondo un figlio fosse un atto di violenza”. In un mondo cattivo e stanco, che cosa ci farà un bambino? Come crescerà, su quali strade camminerà, e a che cosa mi costringerà a rinunciare?
Tutta questa collettiva lucidità, e dunque scetticismo, questo allargamento delle responsabilità dei genitori, questa età adulta continuamente rimandata ma anche indagata e offesa, ha creato un’intolleranza impaurita per il domani (oltre alla consapevolezza che è ancora e sempre tutto centrato sulle capacità femminili di cura, spiegano i sociologi: i figli, gli anziani, questo presente fatto di lunga vita, che ignora la famiglia ma le lascia tutto sulle spalle). Ma le indagini sociali, le statistiche, le filosofie, e anche la fiducia in tecniche che salveranno la nostra fertilità e il nostro momento perfetto dalla disperazione, e tutti i diversi pezzetti del puzzle che compone le cause di nascite sempre più rare, perdono la loro spaventosità davanti a ogni neonato dentro un marsupio per strada, o due gemelli in un passeggino doppio, uno dorme e l’altro piange, e quella madre spinge il passeggino con una forza che nessun rapporto Istat può sfiorare. La paura di vivere se ne va vivendo. E anche se un mattino ci si sveglia nichilisti, le sorprese arrivano ancora. Per questo racconto sulla natalità caduta ho mandato un messaggio un po’ timido, all’ultimo momento, a Margherita. So che non ha tempo, il suo bambino non ha nemmeno sei mesi, ma le ho scritto: dimmi soltanto di che cosa avevi paura, prima. Lei mi ha risposto subito: “Dei serpenti, dell’Isis, delle scogliere, delle trombe dell’ascensore, delle smagliature sulla pancia, ma soprattutto di cambiare, e di non essere capace di farlo”. Però avevi questo desiderio, sempre. “Per dire una cosa un po’ trash, sai quella canzone di Baglioni, la paura e la voglia di essere nudi? Ecco, oltre a quella io ho sempre avuto anche la paura e la voglia di avere un figlio”. Ma ti posso telefonare? “No”. Perché? “Sto in un casino”. Hai un bambino buonissimo, hai il cane che bada a lui, non fare la fanatica. Margherita allora mi ha inviato un’immagine su Whatsapp, ma non riuscivo ad aprirla, e comunque tutte queste foto di neonati, mille foto al giorno in qualunque posa, anche vestiti da coccinella per carnevale, sono ricattatorie: bisogna sempre rispondere che meraviglia, e se non rispondi sei Erode. Ma questa volta stranamente non era una bambina vestita da coccinella, e nemmeno la foto di un bagnetto, né il video di una ninnananna o del primo gorgheggio. Era una specie di termometro bianco, con due striscette blu incrociate. “Ho fatto il test adesso mentre mi scrivevi, non so come sia potuto succedere”. Davvero non ne hai idea? “Quasi nessuna, e sono molto preoccupata: non ho più paura”.
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