Come evitare la marginalizzazione militare dell'Italia
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David Cameron chiede al Parlamento del Regno Unito il via libera ai raid aerei in Siria e la Germania aumenta l’impegno contro l’Isis e invia i Tornado. A questo punto, Renzi dovrebbe porsi la domanda: che fare?
di Mario Sechi | 26 Novembre 2015 ore 17:11
Cosa ha detto Renzi a Hollande? Non si sa. Cosa ha chiesto Hollande a Renzi? Non si sa. Oltre le frasi di diplomatica circostanza non si va. Quello di Renzi a Parigi è un passaggio a vuoto. Non abbiamo detto no e non abbiamo detto sì. Può anche darsi che Parigi non abbia chiesto niente a Roma perché – come ha spiegato Arturo Parisi al Foglio – la Francia si è “ri-messa da sola”, ma l’Italia avrebbe dovuto in ogni caso presentare al presidente francese una sua proposta. Se c’era, non s’è vista. Si è parlato di un nostro maggiore impegno in Libano. Possibile, ma è sufficiente? E tutto questo mentre David Cameron chiede al Parlamento del Regno Unito il via libera ai raid aerei in Siria e mentre i gruppi parlamentari della Germania si riuniscono per aumentare l’impegno di Berlino contro l’Isis (650 soldati tedeschi che verranno impiegati nel Mali, più 5-6 Tornado di ricognizione in Siria, una nave da guerra in appoggio alla portaerei francese Charles de Gaulle, un aereo da rifornimento in volo e satelliti per la raccolta dell’intelligence) una sollecitazione che Hollande ha fatto pubblicamente durante la conferenza stampa di ieri con Angela Merkel. Sollecitazioni pubbliche a Renzi? Nessuna. A questo punto, a Palazzo Chigi dovrebbero porsi la domanda: che fare? Come evitare la marginalizzazione in corso?
Hollande ha triangolato con Regno Unito e Germania, appoggia l’azione di Putin in Siria e ha il via libera degli Stati Uniti che, prima o poi, intensificheranno la loro presenza per non lasciare la scena a Mosca. E noi? Carte da giocare ne avremmo, il problema è che bisogna avere la volontà di sedersi al tavolo della guerra, senza paura e con grande realpolitik. L’Italia governata da Renzi non è uno Stato Arcobaleno demilitarizzato, ma una media potenza che in questo momento impegna oltre diecimila soldati all’interno e all’estero in operazioni di difesa e sicurezza. E’ inutile dire che noi non partecipiamo a operazioni belliche quando in Iraq, in Kurdistan e in Kuwait siamo già coinvolti in pieno nella guerra. I nostri 650 militari impegnati nella missione “Prima Parthica” non giocano a scopone scientifico dentro una tenda, ma hanno funzioni logistiche, di addestramento e appoggio fondamentali per la guerra in corso. I curdi che combattono contro Isis sono istruiti da italiani. Circa tremila uomini sono stati addestrati all’uso del sistema controcarro Folgore, all’uso dei mortai e dell’artiglieria, abbiamo preparato tiratori scelti, personale di primo soccorso ed esperti in esplosivi. Le nostre forze speciali sono a Baghdad e istruiscono personale anti-terrorismo. Obiezione, noi non spariamo. Vero, ma l’aeronautica italiana in Kuwait non gioca con gli aeroplanini di carta: quei 270 italiani sono dentro la guerra come pochi, due Predator fanno ricognizione, sorveglianza e raccolta di dati, quattro Tornado italiani “illuminano” i bersagli che poi altri aerei andranno a colpire, un tanker Boeing KC-767 italiano rifornisce in volo gli aerei in missione contro l’Isis.
Non è un Risiko da tavolo, è guerra. Abbiamo oltre mille soldati in Libano impegnati nella missione Unifil – di cui abbiamo il comando – in una zona a un tiro di missile dalla macelleria siriana e in un territorio in cui Hezbollah è in piena guerra dopo l’attentato kamikaze del 12 novembre scorso a Beirut che ha ucciso 40 persone, strage rivendicata da Isis. In Afghanistan l’impegno italiano è grande, abbiamo circa 850 soldati, mezzi di trasporto, elicotteri, personale che addestra le forze di sicurezza di Kabul. Dal 1999 siamo in Kosovo e ci siamo ancora con 850 soldati e gli ultimi tre comandanti della missione Onu sono italiani. La Somalia non è finita con la storia del Checkpoint Pasta, i nostri sono ancora a Mogadiscio (esercito e carabinieri, per un totale di circa 200 uomini) addestrano i soldati somali e la situazione non è da picnic sull’erba: il 1° novembre scorso i terroristi di Shabaab (affiliati a Isis) hanno assaltato un hotel a Mogadiscio, un attacco con kamikaze, Kalashnikov e granate, bilancio totale 15 morti e decine di feriti. Nel Mediterraneo centrale la portaerei Cavour è la nave comando dell’Operazione Sophia e 580 militari italiani sono impegnati nella sorveglianza marittima. Facciamo la stessa cosa nel Golfo di Aden con la fregata Nave Carabiniere, in missione antipirateria. Ecco, tutto questo movimento di uomini, di materiali, di denaro pubblico è la colonna portante (o dovrebbe essere) della nostra politica estera. Il decreto di rifinanziamento delle missioni militari all’estero, approvato pochi giorni fa dalla Camera e ora passato al Senato, vale circa 300 milioni di euro per il trimestre settembre-dicembre 2015, per una spesa totale di 1,2 miliardi di euro in un anno. E’ singolare che a fronte di un impegno così intenso per le nostre capacità – e pieno di rischi – ci sia al contrario una linea minimalista del governo sul dossier siriano e iracheno. Lasciare a Francia e Regno Unito (ancora una volta) l’iniziativa e il coordinamento delle operazioni, non ci metterà al riparo dalle conseguenze inattese della guerra: in Libano non si viaggia più sul velluto, in Somalia si salta per aria, Baghdad resta uno dei posti più pericolosi della terra, il Kurdistan è tra il fuoco di Isis e quello della Turchia. Girare la testa, non ci salverà neppure dalla minaccia di attentati, come pensano gli illusi. Isis sa quello che facciamo, noi non sappiamo cosa possono fare loro.
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