La vera arma dei terroristi è il loro credo, non le loro bombe. So che l’arma più formidabile nelle mani del mio nemico è il suo credo, non il suo kalash;
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e che il punto di fragilità dei miei amici occidentali è il fantasma miscredente della libertà, l’attaccamento alla vita dell’al di qua intesa come vitalità che esclude i non nati, le famiglie disperse e sconfitte, la virtù, la devozione e la pietà. Giuliano Ferrara risponde ad Adriano Sofri e Michele Serra
di Giuliano Ferrara | 18 Novembre 2015 ore 13:15 Foglio
Ho ricevuto due lezioni politico-morali, una amichevole l’altra meno, firmate da Sofri nel Foglio e da Serra su Repubblica. Mi era sembrato interessante, dolorosamente significativo, che gli EaglesDeathMetal e il pubblico del Bataclan, quando cominciarono gli spari stragisti in nome di Dio, stessero celebrando in musica e parole il bacio in bocca con il Diavolo. Non avevo stabilito dei nessi intrinseci e diretti, non ho alcunché da dire contro il rock duro, salvo gusti musicali diversi, che prediligono semmai l’operetta Bataclan di Offenbach e il Donizetti che mi fu precluso per la chiusura dell’Opera Bastille.
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Mi era sembrato che lo strano e macabro incontro tra un antico Dio del deserto islamico e il Diavolo del deserto contemporaneo potesse richiamare la mente, in uno spostamento di significato altrimenti detto metafora, agli eccessi di retorica occidentalista: temono la nostra libertà, non gli faremo la cortesia di odiarli, non esiste più il nemico storico, sostituito dalla generica amicizia multietnica e multiculturale, non è una guerra, continuiamo a goderci la nostra belle époque eccetera. Io non ho lo stile di un Pasolini (“studenti vi odio”), di una Fallaci (“fuck you!”), di un Hoellebecq (“abitiamo l’assenza”). Non ho proprio uno stile, non me lo merito e non lo rivendico, fatta salva l’impersonale ironia di una dissimulazione alla Flaubert.
So che l’arma più formidabile nelle mani del mio nemico, che so amare e comprendere come nemico secondo il precetto del vangelo integrato dalla filosofia politica del Cinquecento, è il suo credo, non il suo kalash; e che il punto di fragilità dei miei amici occidentali è il fantasma miscredente della libertà, l’attaccamento alla vita dell’al di qua intesa come vitalità che esclude i non nati, le famiglie disperse e sconfitte, la manliness, la virtù, la devozione e la pietà. Basta, volevo dire solo questo, non volevo ovviamente vietare ex post un concerto, immagino meraviglioso ed eccitante, che altri ha vietato con la forza imperativa dell’al di là.
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