Caro Renzi, il Pd lascialo a noi
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Orlando, Zingaretti e i sogni da segretario Pd. Movimenti a sinistra per un nuovo patto con il premier
di Salvatore Merlo | 13 Novembre 2015 ore 06:18 Foglio
Roma. A “Lui” non l’hanno ancora detto, ovviamente, eppure tra loro ne parlano, e molto, in quello stato di miracolosa e paziente discrezione con la quale sempre si prepara una mossa al tavolo degli scacchi: Renzi fa troppe cose – dicono – non ce la fa, poi succedono i pasticci come a Napoli, come in Puglia, in Sicilia, a Roma… “Non si possono fare troppi lavori, non è umanamente possibile”, ha detto anche Antonio Bassolino. E insomma bisogna aiutarlo Matteo Renzi, sollevarlo di qualche soma, di qualche peso eccessivo, “per il suo bene”, sia chiaro. Come, per esempio, sarebbe necessario aiutarlo a liberarsi della segreteria di quel Pd che, ha detto ieri Andrea Orlando, avrebbe proprio “bisogno di una profonda revisione”. E davvero è un coro a mezza voce, a bocca storta, ma unanime. Orlando e Maurizio Martina, la sinistra dei giovani turchi e quella dei giovani cresciuti con Bersani, ma anche Nicola Zingaretti, Cesare Damiano, Enrico Rossi e Gianni Cuperlo, dunque tutti quelli che a differenza di Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre hanno accettato il marziano di Firenze poiché opporsi non serve a niente (ben altri santi si sono accorti che non si esorcizza il diavolo con le giagulatorie), ora sono in movimento per la riconquista amichevole del partito. Dice da tempo Stefano Esposito, senatore e braccio destro di Matteo Orfini: “Renzi un giorno lo si potrà sfidare alle primarie, o al congresso”, ma forse si può anche tentare di convincerlo a cedere prima, chissà. D’altra parte nella politica non si sa mai, bisogna sempre girare, rigirare, rosicchiare l’osso fino all’ultimo in un’esistenza sballottata e difficile: oggi si è in maggioranza e si comanda, domani più niente, poi tocca ricominciare, e infine chi può dirlo, magari si avvera la profezia del saggio Bersani, “prima o poi ci riprenderemo il partito”. E dunque tutti loro accompagnano Renzi, ma senza lo zelo dei servizievoli cretini: il loro è un codice dell’amore avveduto, contabilizzato, se non proprio dell’amore profittevole. E se Orfini declina, Orlando sorge.
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E insomma non è soltanto al congresso, al lontano, lontanissimo 2017 che tutti rivolgono pensieri e parole, ambizioni e aspettative in questo Pd in cui dopo Fassina, Civati, D’Attorre e Mineo nessuno più vuole andare via e nessuno vuole rompere. Ad accelerare il metabolismo della minoranza c’è la suggestione d’un passaggio di poteri che anticipi il congresso, una spontanea – e tuttavia anche improbabile – abdicazione di Renzi. Ma tant’è: se ne parla nella sinistra, lì dove il partito rimane un oggetto quasi religioso per uomini che ancora sanno celebrare e rimpiangere l’innocenza arcaica dei circoli e degli insediamenti, delle riunioni e dell’organizzazione. E così il cicca cicca di Palazzo rappresenta Orlando e Martina, il ministro della Giustizia e quello dell’Agricoltura, capi delle due minoranze rimaste, quasi a braccetto, entrambi chini sulla tela di questa manovra ambiziosa eppure risolutiva. E dicono che persino Nicola Zingaretti, presidente del Lazio, sia pronto, e che insomma non occorrerebbe nemmeno agitarlo prima dell’uso: è più attratto dall’idea di fare il segretario del Pd che il sindaco di Roma (candidatura che ha rifiutato); così tentato che pare abbia proprio intenzione di annunciare già adesso la sua candidatura. Alcuni collaboratori sostengono che Zingaretti voglia candidarsi in televisione, in una delle sue prossime apparizioni.
Ma Renzi? Gli stupori e i riti della vita di partito non lo hanno mai incantato, hanno anzi su di lui un effetto repulsivo proporzionale alla loro lontananza dai tempi rapidi e funzionali di un tuìt. Eppure il partito gli serve: è stato grazie al partito che ha potuto scalare Palazzo Chigi. E infatti ogni tanto allude al congresso, ma lo fa con l’aria di un principe faraone che ha creato leggi magnanime per il suo popolo di schiavi. E insomma non se ne parla. Ma Orlando e Martina la pensano in un altro modo, credono che ormai la fase sia cambiata, dicono che questo non è più il tempo della presa del potere ma è ormai il tempo di governare e consolidare, di mettere in piedi una strategia di lungo orizzonte che sarebbe favorita se Renzi fosse più libero di concentrarsi solo su Palazzo Chigi, e se insomma fosse possibile “cambiare profondamente il partito”, come ha detto Orlando, “attraverso la strutturazione degli apparati e rivedendo alcune formule della vecchia organizzazione. Dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo”. Ma Renzi non dice niente, ogni tanto parla con gli occhi: spazza via la suggestione così, come un colpo di vento spazza via la carta oleosa lasciata sull’erba da un turista maleducato.