Pazza idea (ma neanche tanto): candidare D’Alema a Roma
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“Di Marino in Marino, di prefetto in prefetto, del Pd cosa resta?”, si chiede Esposito. E Mentana la butta lì: “C’è un signore che…”
Vincino
di Salvatore Merlo | 03 Novembre 2015 ore 06:18 foglio
Roma. “Io a Roma candiderei Massimo D’Alema”, dice il senatore Stefano Esposito, il braccio destro di Matteo Orfini, lui che il marasma capitale l’ha inquadrato in questi mesi, da assessore ai Trasporti. “Un partito esiste se ha un vero gruppo dirigente”, spiega. “Ma un vero gruppo dirigente ce l’hai solo se lo responsabilizzi”, aggiunge. “Dunque uno può affidarsi anche al Profumo o al prefetto di turno, certo. Ma attenzione. Di Marino in Marino, di Profumo in Profumo, di prefetto in prefetto, del Pd alla fine cosa resta?”.
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E così, mentre si moltiplicano gli appelli ai tecnici, ai magistrati, ai prefetti, ai supercommissari e agli imprenditori, mentre insomma parte la caccia all’indipendente, mentre comincia la giostra intorno al candidato di richiamo, al nome prestigioso ma non politico che faccia da guarnizione e renda la lista più appetibile (un po’ come si fa nei ristoranti con la carota tagliata a stella o con il ghirigoro di aceto balsamico glassato sul piatto), c’è anche chi – a pensarci bene – comincia ad avere l’impressione che il fenomeno, nel suo complesso, abbia qualcosa di strano, se non di grottesco, un che di allarmante. “E’ come se Renzi, che è il segretario del Pd, dicesse: ‘Guardate, io non mi fido del Pd. Non mi fido dei miei politici’”, dice Enrico Mentana, con il tono di chi vede chiaro dove altri scorgono la nebbia. “A Torino, dov’è obbligato, Renzi sceglie un politico, cioè Piero Fassino, che è il sindaco uscente che ha ben governato”, dice il direttore del Tg La7. “Ma dove può scegliere, come a Roma, o come a Milano, dà invece l’idea di considerare il suo partito alla stregua d’una foglia morta. Che il nome sia Sabella, Gabrielli, Marchini, o chi altro, non è uno dei suoi”.
E insomma è un po’ come se la segreteria del Pd dicesse: lo so, lo so bene che dalla mia fabbrica non escono che automobili disastrose, macchine immonde, con serbatoi che perdono benzina e con freni senza pasticche, roba che si va a schiantare alla prima curva, ma voi fidatevi, votatemi comunque perché oggi ho fatto venire degli operai e degli ingegneri da fuori, gente che se ne intende sul serio. Arrivata a un tale livello di auto sfiducia, qualsiasi fabbrica normale chiuderebbe. Anche i concessionari si vergognerebbero. “Per questo credo siano elezioni decisive”, dice Mentana. “Sono un punto di svolta, un tornante per Renzi: o la definitiva rottamazione del partito che lui ha scalato, o il suo rilancio con la scelta di un candidato politico. Puntare su D’Alema, o su Nicola Zingaretti, non sarebbe una scelta bislacca. Come non sarebbe bislacco candidare Enrico Letta, se solo non ci fossero quei ‘precedenti’ tra lui e Renzi”. Eppure l’impressione è che il partito, e i suoi candidati, almeno a Roma, siano trattati da Renzi alla stregua dell’insalata di Fukushima, roba da decontaminare come il latte e il pomodoro, da mettere in quarantena, da depositare in barili stagni sul fondo del Tevere. E che il ponentino li disperda, li porti lontano, verso terre remote. Dice Esposito: “Guardate che un po’ di professionismo serve. I partiti servono. E un partito in difficoltà, com’è il Pd a Roma, lo salvi se ci investi sopra. Una classe dirigente pulita e capace esiste, ma le va data responsabilità, bisogna darle spazio. Io non sono un tifoso di D’Alema. Con D’Alema non ho nemmeno un buon rapporto. Ma lui è la nostra riserva della Repubblica, è un pezzo pregiato della nostra storia, come lo sarebbero Rutelli e Veltroni, se a Roma non avessero già dato”. Allora ha ragione Mentana, quando dice che forse Renzi vuole rottamare il Pd, tutto e una volta per tutte? “No”, risponde. “Ma lo ripeto, stiamo attenti. Non possiamo farci ossessionare da Grillo, dal meccanismo antisistema. E’ nella logica del grillismo che venne scelto Marino”. Con i noti risultati.
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