Marino e l’allegra farsa dei marziani
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A Roma 26 consiglieri consegnano le dimissioni, finisce l’èra Marino, il Pd si ritrova in un guaio ma la ciccia è un’altra: società civile unfit, moralisti allo sbaraglio, legalità spacciata per efficienza. Cronache protogrilline
Vincino Foglio
di Claudio Cerasa | 31 Ottobre 2015 ore 06:18
Diceva Benedetto Croce che un vero politico onesto è un politico capace, e volendo rigirare il ragionamento, virandolo sulla grande commedia romana, si potrebbe dire che Ignazio Marino, oggi, è l’esempio perfetto di tutto quello che non è un politico capace. La storia dell’ex sindaco di Roma è la storia di una grande farsa non solo per le modalità nannimorettiane con cui sono maturate le dimissioni – “Ah no, se si balla non mi dimetto. No, allora non mi dimetto. Che dici, mi dimetto? Mi si nota di più se mi dimetto e me ne sto in disparte o se non mi dimetto per niente? Mi dimetto” – ma anche per tutto quello che intrinsecamente e culturalmente rappresenta il così detto sindaco marziano. Ieri è stato scritto l’ultimo capitolo della farsa – con i consiglieri non solo del Pd che dopo le dimissioni ritirate da Marino, il quale evidentemente si era dimesso riservandosi il diritto di accettare le sue stesse dimissioni, hanno raggiunto il numero necessario di dimissioni, 26, per far decadere il Consiglio. Ma per capire come si è arrivati fin qui bisogna riavvolgere il nastro e mettere insieme il senso civico, come direbbe Nichi Vendola, della narrazione mariniana. Si è detto in questi giorni che il disastro di Marino contribuirà a spianare la strada al Movimento 5 stelle – e noi siamo certi che il compagno Beppe vincerà le elezioni a Roma esattamente come le ha vinte nel 2013 a livello nazionale (zeru tituli), esattamente come le ha vinte nel 2014 a livello europeo (zeru tituli), esattamente come le ha vinte nel 2015 a livello regionale e amministrativo (zeru tituli). Ma a voler osservare con attenzione quello che è il riflesso del mondo mariniano senza fare troppa fatica si scorge di fronte allo specchio la storia di un sindaco che è ciò che di più vicino esiste oggi al mondo grillino, al mondo codino, al mondo giacobino, al mondo girotondino, al mondo benecomunista, al mondo moralista, al mondo parruccone, al mondo di tutti coloro che, come scriviamo da tempo su questo giornale, hanno spacciato per lotta all’illegalità cinquanta inutili sfumature di moralismo. E’ stato questo lo spirito con cui il marziano aveva preparato nel 2009 la sua sfida alle primarie contro Dario Franceschini e Pier Luigi Bersani. E’ stato questo lo spirito con cui Marino ha vinto le primarie a Roma nel 2013. Sarà questo lo spirito con cui il pupillo del popolo dei Rodotà-tà-tà proverà a sfidare il destino clinico e baro presentandosi alle prossime elezioni come l’anti Renzi.
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Se vogliamo individuare i momenti a loro modo più significativi dell’esperienza dell’ex sindaco di Roma, bisogna però isolare due storie che insieme danno perfettamente la dimensione di ciò che è stato (e sarà) il marinismo. Subito dopo la discesa in campo dell’inchiesta “Mafia & Cravattari & Capitale” – inchiesta senza la quale Marino, detto per inciso, avrebbe perso da tempo il suo posto in Campidoglio – l’ex sindaco di Roma, in perfetto stile girotondino, fece una mossa a suo modo esemplare per dimostrare di essere un baluardo nella lotta dura e pura contro l’illegalità e contro i mali oscuri della città. In quell’occasione istituì un assessorato alla Legalità affidandolo all’ex magistrato antimafia Alfonso Sabella – magistrato giunto così confuso alla fine del suo percorso romano da essere arrivato a dire giovedì sera a “PiazzaPulita”: “Sistemare la macchina amministrativa di Roma è più difficile che catturare Bagarella”. Difficilmente un apostolo del grillismo avrebbe saputo fare di meglio – forse al posto di Sabella avrebbe scelto Roberto Saviano o Michele Santoro. Ma il dato che ci permette di arrivare al secondo episodio chiave è significativo per una ragione semplice: se vale il principio che un politico onesto è un politico capace, un politico capace a Roma saprebbe perfettamente che il modo migliore per combattere l’illegalità è imporre un regime di efficienza. E da questo punto di visto al posto di un magistrato convinto che mettere a posto Roma sia più difficile che catturare Bagarella sarebbe stato più utile affidare a un Carlo Cottarelli o a un Francesco Giavazzi il compito di razionalizzare gli sprechi di una città arrivata al collasso non a causa della leggenda della mafia che se sta a magnà Roma ma molto più semplicemente a causa di un sistema di cattiva gestione del denaro pubblico. Su questo giornale, ieri, il punto lo ha sintetizzato magnificamente il giudice Piero Tony: la piaga della corruzione va affrontata non con moralismi ma con esempi quotidiani di cultura civile e con una grande riforma di semplificazione e riordino della Pubblica amministrazione. Un sindaco para grillino non poteva che fischiettare di fronte a casi clamorosi come quelli dell’Atac e non poteva che evitare di mettere le mani su quello che è stato uno dei più grandi bubboni irrisolti della città. Atac è un’azienda tecnicamente fallita da anni con un debito accumulato da far tremare i polsi che sfiora i 600 milioni di euro e piuttosto che aprire l’azienda al mercato, spezzettandola e provando a farla diventare più competitiva Marino è arrivato al punto di aumentare del 27 per cento i contributi pubblici destinati all’azienda del trasporto pubblico, portandoli alla cifra monstre di 120 milioni di euro l’anno (delibera 273 del 6 agosto 2015). E mentre in quei giorni si provvedeva all’iniezione di nuovo capitale, come ricorda da tempo l’ex consigliere Radicale Riccardo Magi, andava deserta la gara per la fornitura dei 700 nuovi bus promessi dal sindaco ai cittadini, segno evidente che sul mercato non c’è nessuno disposto a stipulare un contratto di leasing con l’azienda. In questo senso, dunque, fa un po’ sorridere che il Pd non sia riuscito a spiegare come avrebbe dovuto che il conto che Marino doveva pagare non era quello di una cenetta al ristorante. Nulla, voce scomparsa.
La storia degli scontrini fa un po’ sorridere, certo, ma rientra in qualche modo anch’essa nel filone grottesco del moralismo giudiziario. Per un sindaco moralista non c’è niente di peggio che essere brutalmente moralizzato, e questo si sa, ma le dita nella marmellata di Marino sono ridicolaggini che rivelano una spassosa coazione a ripetere nel soggetto protagonista. La grancassa che batte sulla bottiglia di vino come se fosse il simbolo di un potere dissoluto e castale fa venire da piangere perché come abbiamo detto i conticini in sospeso di Marino erano altri. Ma tutto fa in qualche modo parte della grande farsa del mito della società civile al governo. E all’interno di questa farsa ovviamente va inserito anche il partito di Marino. Se si fosse concluso tre mesi fa, il disastro Roma sarebbe stato infatti solo il disastro di un sindaco marziano e piuttosto alienato. Oggi, invece, il volto del disastro non è più solo Marino ma è anche quel Pd che in questi mesi, anche con il suo segretario, Matteo Renzi, non ha trovato le parole giuste per spiegare e ricordare che un vero politico onesto è un politico capace e che un politico non capace è un politico che semplicemente il conto prima o poi lo deve pagare. Bye bye Ignazio, e saluti da Pittsburgh.
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