La balla dell’equilibrio tra poteri e i peccati nei rapporti tra politica e procure
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Limitare il raggio d’azione dei magistrati non significa voler togliere loro strumenti necessari a svolgere le indagini ma significa voler togliere loro strumenti che hanno permesso alla magistratura di giocare sporco con le armi del processo mediatico
di Claudio Cerasa | 27 Ottobre 2015 ore 06:18
Ogni volta i giornali ci cascano e ogni volta che un governo ha l’occasione di scontrarsi con il mondo della magistratura la tentazione è sempre la stessa: descrivere le dinamiche del conflitto come se si trattasse di un confronto alla pari tra due pugili appartenenti alla stessa categoria. Chi parte dal presupposto che quello tra politica e magistratura sia un confronto sostanzialmente alla pari commette però un grave errore che porta a perdere di vista il punto centrale della questione. Lo scontro tra potere esecutivo (e legislativo) e potere giudiziario non è legato solo al contenuto di questa o quella riforma ma è legato a un problema più grande che riguarda una premessa che dovrebbe essere scontata e che invece non lo è. In Italia non può esistere un confronto alla pari tra politica e magistratura per la semplice ragione che nel nostro paese la magistratura, o almeno una buona parte di essa, ha sempre considerato una sua specifica prerogativa quella di poter interferire con i processi della politica.
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Da questo punto di vista, il principio della separazione dei poteri è una delle tante truffe linguistiche che ha impedito di osservare quello che è successo in Italia negli ultimi vent’anni e se non si parte dal presupposto che il nostro paese ha dovuto fare a lungo i conti con una classe politica irresponsabile che in molte occasioni ha offerto ai magistrati l’opportunità di trasformare le procure in avamposti della lotta di classe si continuerà a osservare il dito invece che la luna – e si continuerà a non capire che voler limitare il raggio d’azione dei magistrati non significa voler togliere loro strumenti necessari a svolgere le indagini ma significa voler togliere loro strumenti che hanno permesso alla magistratura di giocare sporco con le armi del processo mediatico. Il terreno su cui si gioca lo scontro tra potere giudiziario e potere esecutivo è dunque questo e bisogna mettere tutto insieme per capire quali sono le ragioni per cui il potere giudiziario tende spesso a uscire dal suo angolo. C’entrano i vuoti lasciati dalla politica. C’entra lo spirito corporativo di difesa nei confronti di chiunque provi a riportare equilibrio tra politica e magistratura. C’entra l’idea che il magistrato svolga nella società non solo un ruolo primario nella lotta all’illegalità ma anche un ruolo pedagogico e sostanzialmente di indirizzo politico. I motivi per cui l’Anm – giocando di sponda con un’opinione pubblica che si abbuffata per anni di avvisi di garanzia o intercettazioni smozzicate spacciate per sentenze di condanna – reagisce con durezza quando emerge un esecutivo convinto di dover restringere lo spazio di azione esercitato dal sistema giudiziario sono questi e lo schema di gioco in fondo è sempre lo stesso. Prima si accusa il governo di voler mettere la museruola ai magistrati.
Poi si usa il tema delle intercettazioni in modo strumentale, fingendo che in gioco ci sia non il diritto che viene contestato (il diritto di sputtanare e di pubblicare intercettazioni che riguardano persone terze estranee alle indagini) ma un diritto che nessuno in realtà contesta (la libertà di stampa e il diritto di fare intercettazioni). Lo schema prevede infine un capitolo che non auguriamo a Renzi: il passaggio rapido da scontro verbale, scontro cioè giocato a colpi di parole, a scontro non verbale, scontro giocato cioè a colpi di procure. Sul primo passaggio ci siamo già. Sul secondo passaggio difficile dire se abbia torto chi sostiene che non si tratta di capire se, ma si tratta solo di capire quando.
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