Perché i miliardari sono gli unici che sanno come far fruttare il patrimonio pubblico
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Il Colosseo A, il Colosseo B, Fendi. Roma dimostra che sempre più spesso la macchina amministrativa dello stato è impotente
di Claudio Cerasa | 24 Ottobre 2015 ore 06:00 Foglio
Bisognerebbe commissariare Roma per cinque anni, e non sull’onda emotiva delle sciocchezze da fiction sulla mafia capitale ma sull’onda razionale di un fatto politico-culturale che ci porta a dire che nelle grandi città dove il pubblico ha dimostrato di essere un irresponsabile generatore automatico di sprechi e di occasioni perdute occorrerebbe alzare subito le mani, convocare gli imprenditori più ricchi del mondo e, prima di andarsi a fare una bella vacanza con Marino in qualche splendido fondale dei Carabi, dire loro: venite pure a fare quello che noi della macchina amministrativa non sappiamo fare, venite subito voi, privati, ad amministrare il nostro patrimonio artistico. Il modello Roma del futuro, che dovrebbe essere un modello non solo per la Capitale ma per tutto il paese, non è la Roma ostaggio delle chiacchiere da bar sur teribile scontrino de Marino o su ’a mafia che se sta a magna’ pure ’a Fontana de Trevi; ma è la Roma in cui la macchina amministrativa riconosce la sua oggettiva impotenza e lascia fare ai privati.
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E’ la Roma del Colosseo ristrutturato per 25 milioni da Diego Della Valle. Ed è la Roma dell’altro Colosseo – quello Quadrato, quello dell’Eur, non a caso tornato a essere popolare non per un’iniziativa del comune ma per la nota pubblicità della Nike, quella con Eric Cantona che si alza il colletto della maglia e dice: “Au revoir” – che un ente pubblico non proprio virtuoso (Eur Spa) ha accettato di affittare per quindici anni, a 240 mila euro al mese, alla Louis Vuitton Moët Hennessy guidata da Bernard Arnault – il quale Arnault a sua volta ha affidato all’ad Pietro Beccari il compito (a) di trasformare il Palazzo della Civiltà nel Palazzo Fendi e (b) di farlo riaprire al pubblico dopo 70 anni dalla sua creazione. Ci vorrebbe un Arnault sindaco non in nome di una superiorità antropologica della società civile (bleah) ma in nome dello stesso principio che ha portato a storie come quella degli scavi di Ercolano, dove l’amministrazione pubblica ha fatto della sua impotenza una virtù scegliendo di affidare la gestione del sito archeologico al figlio del magnate americano proprietario del colosso informatico HP, David W. Packard.
Sappiamo che Franceschini ha un’idea diversa, beato lui, e che il ministro della Cultura sostiene, parole sue, che “sulla gestione da parte di privati di siti pubblici bisogna andarci cauti: un conto è che il privato mi venga a proporre la gestione di un piccolo sito che lo stato non è in grado di gestire, altra cosa è gestire il Colosseo o gli Uffizi”. Franceschini però sbaglia, perché un Arnault o un Packard saprebbero certamente far fruttare i Bronzi di Riace, gli scavi di Selinunte, la Valle dei Templi, le gallerie nazionali di arte moderna meglio di una qualsiasi amministrazione pubblica. Un privato che gestisce un pezzo del patrimonio artistico e lo rimette in sesto per legare la sua immagine a quel pezzo di patrimonio in Italia è ancora un’eccezione, e il che può stupire solo fino a un certo punto in un paese in cui il pubblico accetta di cedere sovranità solo a condizione che la sovranità sia offerta a una qualche fondazione in qualche modo controllata sempre dal pubblico. La storia ci insegna che a parte casi virtuosi i miliardari sono spesso gli unici che sanno come gestire la cosa pubblica. E la nostra naturalmente è una provocazione, ma invece che pensare a quale Marino affidare Roma bisognerebbe guardarsi in giro e capire se da qualche parte non si nasconda un qualche Arnault disposto ad alzare il colletto e a diventare sindaco del patrimonio italiano, dicendo au revoir a tutti i chiacchieroni benecomunisti.
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