Sono cose dei romani, punto
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Che c’entrano il Papa e i segretari? Le città vivono di vita propria, e non di politica nazionale. Guardate Londra, Parigi, New York. I ghirigori sulla primavera municipale sono paradossi dell’informazione un po’ farlocchi
di Giuliano Ferrara | 13 Ottobre 2015 ore 06:18
La nuova “marotte” o fissazione di noi giornalisti, ora che è finita la tiritera della riforma costituzionale per la quale “non ci sono i voti”, ora che non sono più di moda previsioni trimestrali di elezioni anticipate, ora che la “finanziaria” d’autunno o legge di stabilità non è più lo scenario di guerra che fa cadere i governi, la nuova ossessione o il nuovo ossigeno per il retroscenismo è la primavera elettorale dei sindaci. E via con lo speculare, a partire dal caso Marino, sul teatro politico nazionale che si reciterà in base alle scelte dei candidati per Milano, Roma, Torino, Napoli e Bologna eccetera, in base agli esiti, ai giubilei, e tutti a caccia di sfumature nella posizione dei leader della destra e della sinistra, o magari anche del Vaticano, e vediamo se Berlusconi riesce su Milano a unirsi con Salvini, vediamo se Renzi blocca le spinte disgregative nella sua maggioranza, reduce dalla batosta in Liguria, e vediamo questo e vediamo quello, forse arriva un grillino a Roma, forse no, e chissà che avvenimento apocalittico. Ma magari arrivasse un grillino in Campidoglio, sarebbe un passaggio altamente chiarificatore, un salto nel grottesco più ardente di brace dopo la padella del ridicolo. Ma sono cose dei romani, punto.
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A me questi ghirigori sulla primavera municipale sembrano tutti paradossi dell’informazione un po’ farlocchi. I municipi fanno storia a sé, le città sono quel che sono, se la devono cavare con le loro forze, dovrebbero dipendere meno dalle spese di trasferimento della finanza pubblica, privatizzare i trasporti pubblici, il potere civico ha come misura i suoi stessi confini, non è un Risiko sostitutivo delle elezioni politiche o della vita parlamentare, almeno in una Repubblica come la nostra. Il sindaco di una città, anche grande, anche la più grande, è un pubblico amministratore eletto dai cittadini. Deve fare certe cose importanti, ma per esempio, nel nostro sistema, non è il responsabile della sicurezza, non è da lui che dipende, come a New York, la polizia. La nostra figura di sindaco non ha né competenze né carismi che eccedano la sua funzione locale, magari dotata di una certa carica simbolica, ma locale e amministrativa.
Le città vivono di vita propria. Domenica scorsa a Napoli – dove sta un sindaco magistrato universalmente considerato di tono minore – una fila interminabile di napoletani ha celebrato la transitoria riapertura della biblioteca dei Girolamini, quella dello scempio, e nella sala Vico a migliaia hanno sfilato davanti alla bellezza fatta spazio e anche agli spazi vuoti e malinconici negli scaffali dove migliaia di libri furono trafugati e venduti ai ricettatori internazionali di opere di pregio bibliofilo. A Roma – dove se ne è appena andato via un sindaco di tono opaco e di efficienza nulla e di molte imperdonabili gaffe – il Colosseo splende in chiarezza, ripulito e in restauro con i soldi del gruppo Della Valle. A Milano Pisapia non si ripresenta per scelta personale, e questo all’indomani della ricezione eccellente, a detta di quasi tutti, garantita alla famosa Expo, che la solita fissazione della stampa e delle televisioni per mesi e anni aveva giudicato il disastro prossimo venturo.
Bisognerebbe mettersi in un assetto elementare ma razionale. I candidati li scelgono gli elettori con le primarie, e se vota qualche Sinti o c’è qualche incrocio destra-sinistra, bè, chissenefrega. Guardate la Francia o l’Inghilterra: le primarie cominciano a essere riconosciute come la principale riforma della Costituzione materiale della politica in Europa, dopo la lunga sperimentazione, con regole ben altrimenti chiare, nel sistema costituzionale e dei partiti di tipo americano. Non sta al presidente del Consiglio o al capo dell’opposizione mettere il naso, decidere, sfidare, saltare nel cerchio di fuoco di situazioni metropolitane tutte diverse l’una dall’altra. A Londra, e dico Londra, si candida un musulmano, troveranno altre mille escogitazioni per dividersi il consenso politico sull’eredità del grande Boris Johnson. Nessuno pensa che ci sia un rapporto così stretto tra i destini di David Cameron e quelli di Londra, e dico Londra, o tra il futuro dell’Eliseo e quello di Parigi, e dico Parigi, l’Hôtel de Ville, un municipio che anch’esso per decenni è stato giudicato di preminente interesse nazionale, fino al punto che non aveva un sindaco, era guidato centralmente. A New York c’è Bill de Blasio, uno che non ha ancora capito chi è Marino, un tipo strambo, e decideranno i newyorchesi (senza che questo abbia il minimo influsso sulla battaglia per la Casa Bianca o sulle elezioni di Senato e Camera dei rappresentanti) chi dovrà sostituirlo alla fine del mandato. Bisogna piantarla con le bandierine sulle raccaforti conquistate qui e là da questo o quello schieramento; sono ragazzate, procedure infantili, appunto fissazioni. Ogni città ha un suo destino, non è detto che sia il sindaco l’autorità civile davvero in grado di cambiarlo, e comunque, per quel che può, un sindaco è espressione di una società politica e civile locale. Che c’entra il Papa? Che c’entra il giubileo della misericordia? Che c’entrano i segretari di partito?
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