Geopolitica dei sindaci
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Da Roma a Napoli. Le comunali e l’obiettivo di superare il paradigma populista delle grandi città
di Sergio Soave | 12 Ottobre 2015 ore 11:45 Foglio
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In primavera si devono rieleggere i sindaci e i consigli comunali di numerose città, comprese quelle più popolose, da Roma a Milano, da Napoli a Torino. Spesso una tornata amministrativa così rilevante ha segnalato cambiamenti del quadro politico, come accadde per esempio con quelle del 1993, che segnalarono la crescita resistibile della sinistra e che indussero Silvio Berlusconi a entrare in politica, dando vita alla democrazia dell’alternanza che era stata avviata proprio dalle elezioni municipali realizzate con un sistema maggioritario. Per le formazioni politiche la sfida di questa primavera può rappresentare un momento decisivo per prospettare le novità che inaugurano la “Terza Repubblica”, sia sul piano dei contenuti programmatici sia su quello del metodo di selezione dei candidati.
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La prima questione da affrontare è la scelta di candidature calate dall’alto o cercate tra chi ha esperienza amministrativa locale o comunque una presenza realmente collegata alla vita cittadina. I sindaci attuali delle maggiori città vengono tutti da esperienze esterne: Piero Fassino è stato segretario dei Ds, Luigi De Magistris viene dalla magistratura, Ignazio Marino era l’esponente di una corrente del Pd nazionale, Giuliano Pisapia era un parlamentare di primo piano nella galassia di estrema sinistra. Questa particolare estrazione ha spinto i sindaci a guardare più in alto, alle relazioni con il governo e con i vertici politici che alla realtà concreta delle città che amministrano. A questo va aggiunto che il tratto culturale prevalente, almeno nei programmi amministrativi, è assolutamente sghembo rispetto all’asse politico fondamentale del paese, che in un modo o nell’altro è obbligato a porsi il problema del rigore e della riduzione degli ambiti di intervento della mano pubblica. Nelle metropoli, invece, prevalgono le fanfaluche del benecomunismo, la rivendicazione di sforamenti di bilancio da ripianare dall’alto, la prassi del tassa e spendi, secondo una logica che sembra più dettata da Yanis Varoufakis che da Pier Carlo Padoan. Sarebbe un segnale importante di cambiamento se i candidati e i programmi che si confronteranno in primavera segnassero un cambio radicale di questo obsoleto paradigma populista che ha prodotto quasi dovunque disastri e comunque un appesantimento straordinario dell’imposizione fiscale locale senza apprezzabili miglioramenti dei servizi, che spesso invece si sono avvitati in una spirale di degrado. Amministratori scelti all’interno delle classi dirigenti urbane, consapevoli di dover risolvere problemi assillanti come la gestione del ciclo dei rifiuti, i servizi di trasporto, il risanamento e in moltissimi casi l’abolizione o la privatizzazione della selva di società municipalizzate. E’ un tema che si pone a tutte le formazioni politiche e in particolare al Partito democratico, che vive una costante e lacerante contraddizione tra le politiche nazionali e la prassi amministrativa locale, di cui la vicenda Marino è solo la punta visibile di un iceberg di dimensioni colossali. Il problema da affrontare non ha solo connotati politici, affonda le sue radici che si potrebbero definire sociologiche nei caratteri peculiari dell’intellettualità metropolitana, staccata in una specie di limbo aristocratico dalle esperienze e dai problemi della cittadinanza comune. Questi ceti, innervati da una visione cosmopolita e snobistica, che fu descritta tanto efficacemente da Scola nel film “La terrazza”, rappresentano una sorta di intercapedine che rende difficile la creazione di un ceto politico urbano che sia espressione diretta degli interessi e dei contrasti reali delle società complesse e assai stratificate che abitano soprattutto le grandi città. Affidarsi semplicemente a criteri di selezione basati sulle consultazioni primarie, proprio per questi caratteri particolari, non basta a risolvere lo iato che separa le élite metropolitane dalla realtà popolare.
Già si sono visti segnali di come queste tendenze snobistiche, moralistiche e talora giustizialiste ricevono sanzioni pesanti, com’è accaduto a Felice Casson sonoramente battuto a Venezia. Però per battere in breccia le tendenze oggi dominanti è necessario condurre una battaglia esplicita, per dare il segnale di un cambiamento e di una coerenza tra gli obiettivi di rinnovamento nazionale e le candidature locali. In fondo, nonostante tutto, la buona amministrazione di Vincenzo De Luca a Salerno l’ha avuta vinta su tutte le pulsioni populiste e giustizialiste che pure avevano trionfato nella metropoli partenopea. Non sarà un modello, ma certo è un esempio da non trascurare.
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COMMENTI
1-Giovanni • 3 ore fa
Amministrare una città e specialmente una grande città è uno dei compiti più gravosi che ci siano. Forse persino più gravoso che governare un paese. Gli abitanti di una città conoscono il Sindaco e a lui generalmente si rivolgono. Spesso invece non sanno nulla degli assessori. Governare una grande città fa diventare immediatamente qualsiasi sindaco, qualunque sia la sua provenienza ideologica, persona concreta e attenta alla realtà delle cose. Se ciò non avviene sarà un sindaco dalla vita politica breve e tormentata. Ad esempio, Pisapia, ideologicamente di sinistra estrema, raramente ha potuto esprimere nei fatti il suo pensiero politico ed invece è stato un buon sindaco alquanto pragmatico anche se un po' algido. Ergo, come scegliere i candidati a governare i comuni italiani? Sceglierli fra coloro che al di là del credo politico possiedano un solido senso della realtà. Meglio ancora se inoltre hanno discrete capacità organizzative.
2-Giovanni Attinà • 5 ore fa
Adesso non facciamo l'enfasi di De Luca, la cui affermazione è stata legata al disfacimento del centrodestra. Per amministrare le grandi città ci vogliono persone che affrontino anche i piccoli problemi quotidiani e non certo le opere elefantiache.
3-honhil • 5 ore fa
Io togo, tu tughi, egli toga… La politica, del sostantivo
toga, ne ha derivato il verbo togare e ha cominciato a declinarlo a suo
piacimento, con lo stessa furbizia che le toghe fanno uso dell'obbligatorietà
dell'azione penale. Dell’ ‘atto dovuto’. Acquisendone la stessa impunibilità. A
quel punto, lo stivale è diventato tutto un gioco delle tre carte. Che è più di
un piano inclinato. Che è peggio di un piano inclinato. Che è oltre il piano
inclinato. Da ciò lo sfascio istituzionale a tutti i livelli. E mentre il
fasciame di questo vascello chiamato Italia galleggia in chiazze sempre più
larghe e si disperde nel vuoto parlamentare, gli italiani non sanno più a che
santo votarsi.