Finché la Rai, pagata dai cittadini, sarà pubblica, essa resterà in mano ai partiti
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Anche dei partiti di opposizione che, come capita sempre in politica, e non solo in Italia, debbono essere tacitati in qualche modo perché, in caso contrario, fanno una cagnara che non ti dico.
di Pierluigi Magnaschi Italia Oggi 1.10.2015
Come in tutte le prefiche, chi urla, si scompagina e si lagna di più è colui che è responsabile della situazione definita deprecabile e di cui fa finta di lagnarsi. La Rai, da sempre, e per definizione, in quanto ente pubblico è in mano ai partiti politici. Non solo dei partiti di maggioranza (che si riservano, ovviamente, qualunque essi siano, la parte del leone, come del resto è inevitabile) ma è anche in balìa dei partiti di opposizione che, come capita sempre in politica, e non solo in Italia, debbono essere tacitati in qualche modo perché, in caso contrario, fanno una cagnara che non ti dico. E sui pastrocchi, meno si parla meglio è. Meglio mettersi d'accordo. Cioè spartirsi la torta. In laborioso silenzio.
Michele Anzaldi, appena ha aperto bocca, è stato subito denominato Goebbels dagli attempati figliocci di Stalin incistati nella terza rete Rai (ma non solo) che, per abitudine e non solo in questo caso, vanno giù piatto, preventivamente, per demonizzare l'avversario politico, radendolo al suolo. Così non nuoce più. Ma partiamo dai fatti, Anzaldi è un senatore dem, renziano, e segretario della Vigilanza Rai che, in polemica con la minoranza Pd, si è era permesso di dire: «Forse a Raitre e al Tg3 non sanno chi ha vinto». Subito quindi si è accesa la contraerea come se la Rai fosse un terreno neutro, dove non ci sono padroni e dove gli unici padroni (e per l'eterno) fossero quelli che, per strana congiuntura, sono riusciti a mettere le mani su una trasmissione o anche solo su un microfono. È sceso nell'arena, sia pure con la misura che gli è propria, anche Angelo Guglielmi che, all'origine, fu l'intelligente motivatore della terza rete Rai che, allora, era ufficialmente in mano al Pci che, a quel tempo, era un moloch inossidabile e non aveva certo molte anime fra di loro in conflitto come adesso col Pd.
Intervistato dal Corriere, Guglielmi ha detto che, quando era lui direttore di Rai3 (dal 1987 al 1994) «nessuno ha mai osato contestarmi nulla, i politici erano tutti tremebondi di intervenire, potevo fare quello che volevo». Guglielmi dice il vero ma non spiega né il perché né il come. Ai suoi tempi infatti, le tre reti Rai erano state ufficialmente spartite e platealmente affidate ai tre grandi partiti del momento. La prima rete era in mano alla Dc. La seconda era stata regalata ai socialisti. E la terza era tenuta saldamente in mano dal Pci. I vertici delle tre reti erano quindi stati direttamente scelti dalle segreterie nazionali dei tre partiti. Bastava obbedire a quella che ti aveva nominato che nessuno ti avrebbe molestato.
A quei tempi poi, il Pci era un monolito (come anche il Psi di Craxi; ben diverso era il pollaio della Dc) e non un caravanserraglio com'è adesso il Pd. Guglielmi quindi, essendo stato nominato dal segretario del Pci (perché evidentemente costui lo considerava affidabile) non è mai stato premuto da nessuno, come lui oggi dice, perché dietro di lui c'era un politico, il segretario del Pci, ripeto, che nel suo recinto (la Terza rete Rai, in questo caso) era anche il detentore assoluto e incontestato della linea politico-editoriale. Quindi Guglielmi veniva lasciato in pace non perché fosse libero di fare quel che voleva, ma perché era ingabbiato in un sistema dove, per stare libero, gli bastava ubbidire (o anticipare i desideri) al solo che lo aveva nominato, il segretario del Pci.
Che la situazione non fosse idilliaca lo dimostra anche la successiva risposta che Guglielmi ha dato, sempre nella stessa intervista al Corriere della Sera. Infatti, dopo aver ammesso che la riforma Rai va avanti, Guglielmi, contraddicendosi non poco, ma dicendo anche il vero, sottolinea: «Però la mano dei partiti non è stata tolta, anzi. L'impianto è rimasto quello di sempre, la spartizione prosegue come e più di prima». Che in Rai ci sia la spartizione e che la Commissione di vigilanza (nonostante il nome pomposo e irrealistico) sia la camera di compensazione in cui gli esponenti dei vari partiti si sorvegliano l'uno l'altro per impedire che una parte abbia più vantaggi dell'altra nella guida politico-clientelare della Rai, lo conferma anche il sindacato dei giornalisti.
Lo dimostra questo fatto. In tutte le aziende editoriali l'editore, ai sensi del contratto nazionale di lavoro giornalistico, può licenziare senza giusto motivo (molto prima che vedesse la luce Jobs act), anche se con adeguata e predeterminata liquidazione, il direttore e il vicedirettore di qualsiasi testata. Ebbene, la Rai è l'unica casa editrice italiana nella quale i direttori (e i vicedirettori) quando sono licenziati, perdono la direzione ma mantengono lo stipendio. Come mai un'anomalia di questo genere? Perché (me lo disse un direttore generale; e altrimenti non si potrebbe spigare un'anomalia e uno spreco di questo tipo) i sindacati si sono opposti all'applicazione del contratto nazionale, dicendo che, siccome in Rai il giro delle alte poltrone giornalistiche erano un arbitrio imposto dai partiti, non si poteva far pagare ai direttori questi colpi di mano.
Per concludere, visto che un editore deve poter comandare e scegliere, finché la Rai sarà pubblica, essa sarà lottizzata. Si vuole eliminare la lottizzazione? C'è una sola via: la privatizzazione totale della Rai (non come le province o come il senato, naturalmente). Ma se la Rai rimane pubblica, smettiamola di fare i piagnina e teniamocela così: editorialmente impresentabile come al solito, nonostante le grandissime professionalità che essa possiede.
Pierluigi Magnaschi
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