Intercettare Volkswagen
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La truffa ambientale delle auto tedesche (ma di qualcosa bisognerà pur morire), i nominati di Bersani e gli urlatori contro il bavaglio. Il pagellone fogliante alla settimana politica (e non) di Lanfranco Pace
di Lanfranco Pace | 26 Settembre 2015 ore 12:00
DEUTSCHLAND, DEUTSCHLAND
Un’amica che ha una Audi con il diesel 2.0 incriminato mi ha detto che va bene così, che se ne frega se fa più danni del dovuto tanto di qualcosa dovrà pure – e dovremo tutti – morire. Non è che non nutra preoccupazione per l’ambiente ma pensa che il suo apporto sia una goccia nel mare. O forse dice così perché in Italia non c’è mezzo per farsi indennizzare, c’è solo il procuratore Guariniello che s’è infilato lesto ai Tg delle 20 annunciando procedimento contro ignoti per frode e distruzione ambientale. Campa cavallo vapore.
Ciò non toglie che VW abbia truffato. Beccherà multe salatissime, sanzioni, procedimenti di class action, dovrà rimborsare migliaia di clienti, intanto ha licenziato dirigenti felloni. La truffa merita una riflessione particolare: chi fino a poco tempo fa difendeva la superiorità dell’industria sulla finanza, la solidità rassicurante delle cose materiali sull’estrema volatilità di quelle immateriali, dovrà ricredersi. La più grande truffa della storia viene dall’industria ed è stata possibile grazie a un software, cioè un’invisibile serie di 0 e 1, nascosto nella centralina. Dicono i tecnici che in un’automobile di oggi c’è più software e più alta tecnologia che in un Airbus 320. Conclusione paradossale: la buona vecchia industria può essere pericolosa quanto se non più delle astruserie cartacee delle banche d’affari.
WV è però un singolo gruppo, grande quanto si vuole, globale quanto si vuole, potente quanto si vuole ma pur sempre uno: da qui a fare il funerale del modello tedesco o addirittura della Germania ce ne corre per chiunque non sia un bilioso e sciocco nazionalista.
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Da Adenauer e Erhard fino a Gerhard Schroder e Angela Merkel, il modello tedesco è riuscito a portare in soli settanta anni un paese raso letteralmente al suolo e diviso da un muro a riunificarsi e ad essere la terza potenza mondiale. La cogestione tra imprenditori, finanza e sindacati all’ombra protettiva dello stato federale ha il suo perché: è l’idea forza di quella nazione e tale resterà. A chi dice che è un sistema opaco, che la truffa è stata possibile perché manca il controllo del mercato, si può obiettare che proprio nella patria del libero mercato, in America, del crollo della Lehman ci si è accorti solo quando si è sentito il botto. E a chi dice che quello tedesco è il modello preferito di Landini, che della WV aveva fatto la sua stella polare, un’impresa semipubblica e socialmente solidale da contrapporre alla brutalità capitalistica di Sergio Marchionne, si può rispondere che è tutto un’ammuina: il buon Landini sta alla Mitbestimmung come Laura Ravetto alla Thatcher. Il segretario della Fiom è l’epigono di un sindacalismo conflittuale che mal si adatterebbe ai consigli di amministrazione di Baviera e Bassa Sassonia e che troverebbe da ridire pure quando i salariati beccano a fine anno seimila euro a testa come premio di produzione. Discende culturalmente dai sindacalisti della fine degli anni sessanta, il suo approccio ai problemi del lavoro non è meritocratico ma egualitario, non parla mai di efficienza e produttività ma di diritti, la cui supremazia è irrinunciabile anche in tempo di crisi. E’ un sindacalista da rigidità della forza lavoro, come era per l’appunto mezzo secolo fa. Proprio in questi giorni sono in agitazione a Roma operai e tecnici dell’Ericsson. Per chi ha l’età e buona memoria, la fabbrica sull’Anagnina è la vecchia Fatme, dove nel lontano 1969 si formò uno dei primi comitati di base italiani. Mise fine ad anni di pace sociale e anticipò l’autunno caldo, rivendicando riduzione d’orario e aumenti salariali uguali per tutti. Da quella stagione vennero fuori i consigli di fabbrica e la FLM, Federazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici, un rapporto di forza poi tradotto nello Statuto dei lavoratori. Era il Jurassico, il tempo di Landini: voto 8, per nostalgia.
NOMINATI E VISTI
Dei trecento e passa deputati Pd che siedono nell’attuale parlamento, Bersani ne ha nominati più o meno duecentocinquanta, da solo o in accordo con gli allora maggiorenti D’Alema, Franceschini e Letta. Dunque è quanto meno singolare che l’ex segretario denunci ogni due per tre il rischio per la democrazia di un parlamento di nominati. In settanta anni non abbiamo conosciuto altro tipo di rappresentante che non fosse nominato: al centro del sistema politico- istituzionale ci sono i partiti e i partiti si sa nominano. Nella prima Repubblica il Pci, culturalmente ostile alle preferenze, impose una disciplina rigida: militanti ed elettori dovevano votare al più per i capilista, gli altri seggi venivano assegnati in base ai voti ottenuti e in funzione del posto occupato nella lista. A che io ricordi, non ci furono sorprese, mai un candidato magari più popolare degli altri stravolse l’ordine stabilito dall’alto.
La sola e breve parentesi fu con il maggioritario a doppio turno con cui nel 1994 furono eletti tre quarti dei deputati, l’ultimo quarto scelto direttamente sul listone bloccato.
Questo per dire che i nominati sono fra noi da bella pezza e proprio non si comprende questo rigurgito farlocco di democrazia. A meno che non si guardi verso i 5 stelle, dove però l’alternativa al nominato è l’unto dalla rete, cioè il nulla siderale, cinquanta cretini che o si votano in famiglia o accettano di farsi rappresentare da uno di cui conoscono appena la faccia e dieci righe di dichiarazione di intenti. In attesa che si arrivi finalmente alle elezioni all’americana, con primarie organizzate per legge e ballottaggio finale, i nominati sono pilastri e baluardi di democrazia, giganti del pensiero e dell’agire politico. Teniamoceli stretti: voto 10.
PERICOLOSI PIU DEGLI STALKER
Ossessivi e compulsivi, i procuratori vindici e i giornalisti dalle cento sembianze ci hanno ammorbato per anni. Le grandi orecchie di polizia, carabinieri, guardia di finanza e finanche di agenzie private, hanno intercettato a strascico, i magistrati hanno passato fragaglie penalmente irrilevanti ma politicamente ghiotte ai giornali che hanno messo in pagina merda. Sono venti anni e più che va così. Ricordo una delle prime, la trascrizione sul Giornale di conversazioni fra la figlia di un importante manager pubblico e il banchiere che allora stava appena sotto Dio, non c’era reato alcuno, nelle intenzioni dei pruriginosi divulgatori era necessario dare un’idea delle relazioni occulte fra potenti: fu invece solo avvilimento.
Oggi che il governo ha ottenuto il via libera dal Parlamento e si accinge a regolamentare le intercettazioni, si leva al cielo il raglio contro il bavaglio. Siamo sinceri: più dei magistrati e degli investigatori in generale, siamo noi, i giornalisti, i maggiori responsabili di questo mal costume. L’affermazione che quando si viene a conoscenza di una cosa la si pubblica, se ne dà imperativamente conto ai lettori, è come l’obbligatorietà dell’azione penale: una colossale ipocrisia. Dettata nel migliore dei casi da ragioni commerciali. Nel peggiore, da furore e frustrazione ideologica. Dietro ci vedo sempre Grillo che ammicca e rassicura, sorridete, dovreste essere contenti se vinciamo noi perché questi li mandiamo tutti via. Amo troppo il mio paese per pensare che un giorno possa essere governato da un Di Maio, per non avere i brividi di fronte alla faccia plebea e sanculotta del populismo: che in versione mediatica si ripromette di svelare relazioni e implicazioni del potere, stanare quelli che al telefono siglano patti scellerati. I Travagli e le Milelle, e tutto il loro bel mondo di giornalisti e giornali negli Stati Uniti girerebbero con le pezze al culo, sepolti da multe milionarie per diffamazione e violazione della privacy. Democrazie di più lunga tradizione hanno anticorpi contro una malattia che resta dunque esclusivamente italiana. Venti anni di guerra civile mediatico-giudiziaria hanno partorito mostri e mostriciattoli, schiere di imitatori convinti che suonare insistentemente al campanello di casa di un indagato sia un alto momento di giornalismo. A loro voto 4, ai mandanti e mentori voto 2. Al ministro Orlando e al governo 7, sempre che riescano a mettere nero su bianco qualcosa che dia certezze e restituisca al paese un po’ di civiltà giuridica.
… E PER FINIRE
Vorrei tanto chiedere al maestro Andrea Camilleri (voto 10) perché, anziché scegliere una delle tante brune, polpose e focose della sua terra, ha fatto fare ziti Salvo, il vecchio (voto 9) e il giovane (anche lui 9), e Livia, ligure di Boccadasse: che è bionda, gnè-gnè e una camorria bottana. Voto: 4.