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La piccola Monaco del Pd finisce con un felpato “lavoro comune”. Ma basta uno sbuffo e salta tutto
di Salvatore Merlo | 11 Settembre 2015 ore 06:18 Foglio
Roma. L’incontro ha seguìto una grammatica curva e prudente, come testimonia Luigi Zanda, “abbiamo definito l’oggetto”, dice il capogruppo, “vogliamo tutti che la riforma venga approvata per il 15 di ottobre”. E gli uomini e le donne della maggioranza e della minoranza del Pd ieri si sono misurati sulla contesa riforma del Senato ben sapendo che i corridoi del partito sono divenuti campi di battaglia, dove in un brevissimo spazio si scontrano e sfogano gli affetti più disordinati, cupe collere e accorte lusinghe: “Lavoriamo tutti su una mediazione”, ha detto Doris Lo Moro, ambasciatrice di Bersani in questa conferenza di Monaco del Pd, “ma la condizione è che ci sia la volontà di parlarsi e ascoltarsi reciprocamente”. E così si respira un’aria di guerra (cioè una speranza di pace), e insomma tutto è congettura, desiderio, rappresentazione opinabile, “lavoriamo a una soluzione condivisa”, dice Maria Elena Boschi, “continueremo anche nei prossimi giorni ma i tempi stringono”. Questa conferenza di pace durerà fino a martedì prossimo, non oltre, si tratta di modificare la riforma del Senato, e di farlo in modo tale che alla fine nessuno perda la faccia, né il martellante Renzi né la fronda un po’ riluttante nei fatti (ma non nei modi). E tutti sono in realtà rosi dall’angoscia perché, come un morbo incurabile, l’incertezza li tormenta, nessuno vuole sfasciare il governo o il partito, ma nemmeno dare l’idea di aver ceduto completamente sul sistema con il quale si designeranno i futuri senatori e su quali funzioni dovrà esercitare Palazzo Madama dopo la riforma. E dunque se ne stanno così, scuri in volto, immersi ciascuno nella propria incredula stizza per le richieste dell’altro, intenti a considerare i rispettivi danni in caso di accordo, ciascuno in contatto con il rispettivo quartier generale.
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Da questa ultima, un po’ teatrale e propagandata trattativa, Zanda ed Ettore Rosato, Lo Moro e Barbara Pollastrini, Emanuele Fiano e Anna Finocchiaro, il ministro Boschi e il sottosegretario Francesco Pizzetti, vorrebbero uscirne con qualcosa di risonante, sarà tutto o niente: un grande successo o lo scoraggiamento totale. Ma un accordo tecnico in questa strana conferenza di pace potrebbe non corrispondere a una benedizione politica di tutti i rivoli correntizi, “la mediazione va trovata a questo tavolo ma anche fuori da questa stanza”, ha detto allusivamente la senatrice Lo Moro, perché il rapporto tra Renzi e la ramificata minoranza è sempre complicato, sul ciglio della rottura, sempre sottoposto al rischio di qualche agghiacciante equivoco, tra umori e retropensieri, sospetti e ripicche che poco hanno a che vedere col nebuloso merito della riforma: “La volontà politica in parte arriva a questo tavolo e in parte no”, ha detto Lo Moro. E basterebbero certi sorrisetti, il ribollire dei sussurri che nei capannelli della Camera da tempo circondano Anna Finocchiaro per rendere l’idea di quanto il personale sia politico e il politico personale.
Massimo D’Alema, nella sua ultima intervista, con il Corriere, non perdonava Nicola Latorre e Matteo Orfini d’essere diventati renziani (“mi fa un certo effetto di tristezza”), e così nemmeno Anna Finocchiaro, divenuta oggi eroina renziana della riforma del Senato, lei che debuttò a Montecitorio assieme a D’Alema nel lontano 1987, e che del dalemismo è stata un’appassionata e fedele flâneur, la passa liscia nella sua repentina conversione allo spirito del tempo, allo Zeitgeist renziano. Il rottamatore l’aveva esclusa nel 2013 dalla direzione nazionale, ma la riforma del Senato, con il ruolo di presidente della commissione Affari costituzionali (concesso da Bersani), ha rappresentato per Finocchiaro l’occasione insperata, l’opportunità di saltare sull’attimo fuggente, di rendersi necessaria al nuovo equilibrio di potere. Non glielo perdonano. Ma può un’intera trattativa naufragare per antipatia, per un umore, per un tradimento?
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