D’Alema, quando cresci?
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Intervistato dal Corriere l’ex premier costruisce in ritardo una sorta di memoria sentimentale di una sinistra che non ha fatto bene i conti con la sua storia reale
di Redazione | 03 Settembre 2015 ore 13:55 foglio
Massimo D’Alema riapre le ostilità contro Renzi con una corposa intervista al Corriere della Sera, in cui, nell’ambito di una lettura solipsistica delle vicende politiche dell’ultimo ventennio, fornisce la base psicologica (lui dice sentimentale) della rottura. Secondo lui “è avvenuta una cosa più grave di una rottura politica; una rottura sentimentale”, questo “perché c’è qualcosa in Renzi che va al di là delle scelte politiche: è proprio questo tono sprezzante e arrogante, verso le persone del nostro stesso mondo, verso la nostra storia”. Già, ma qual è la storia alla quale Renzi non rende il dovuto omaggio? D’Alema usò argomenti simili quando, dopo l’annuncio di Achille Occhetto di voler cambiare il nome al Pci, espresse comprensione nei confronti dei “malpancisti”, di quei settori del partito che non intendevano ammainare i simboli “gloriosi” del comunismo. E’ in base a questa concezione continuistica che, come racconta Giorgio Napolitano nelle sue precoci memorie (perché scritte prima della sua elezione al Quirinale quando considerava conclusa la sua esperienza politica attiva) D’Alema condusse una campagna di demonizzazione dei riformisti, accusandoli di voler far confluire il nuovo partito nell’ambito del socialismo, allora rappresentato in Italia da Bettino Craxi. In seguito, quando si aprì la prospettiva del centrosinistra immaginò di preservare la “storia” della sinistra puntando a far esercitare a Romano Prodi una funzione tecnica e subalterna, salvo poi sostituirlo quando si convinse di poter superare l’handicap della sua radice comunista, grazie all’aiuto di Francesco Cossiga e di Clemente Mastella. Si sa com’è andata a finire, ma ora D’Alema non sente alcuna remora a presentarsi come poco credibile esaltatore del centrosinistra storico. E’ un’altra forma del continuismo smemorato che ha surrogato una riflessione sulle vicende reali della sinistra italiana e che oggi viene utilizzato per porre le basi di una incompatibilità quasi antropologica con il “renzismo”.
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Naturalmente D’Alema ha tutto il diritto di battersi per un cambiamento al vertice del Pd, ma non di propagandare questa volontà come una sorta di doverosa ricostruzione dell’identità “storica” di un centrosinistra immaginario deturpata da Renzi. Dipingere poi la conduzione attuale del partito come una riedizione dello stalinismo, come fa D’Alema con una disinvoltura straordinaria, sembra una operazione retorica volta a giustificare qualsiasi rottura, compresa quella che arriva a una aperta secessione. Il continuismo di D’Alema non contempla una fase “renziana” perché l’attuale segretario rifiuta il ruolo subalterno di compagno di strada sottoposto all’egemonia dei detentori dei valori “storici” del centrosinistra. Ma c’è da scommettere che Renzi se ne farà una ragione.