Il bracciante nero morto e poi fatto sparire non è mai esistito. È un'invenzione della Cgil
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Ivan Sagnet, che però, successivamente, una volta convocato dai carabinieri, ha smentito tutto,
di Pierluigi Magnaschi Italia Oggi 2.9.2015
In pieno agosto, tutti i media (e in particolare i tg che, dovendo fare servizi per 24 ore di seguito, sono sempre a corto di notizie) hanno dato, con grande evidenza, e per più giorni, la notizia che un trentenne bracciante di colore del Mali era morto (dalla fatica, ovviamente) in un campo di pomodoro di Rignano Garganico in provincia di Foggia e il suo corpo era poi stato fatto scomparire dai caporali che controllano e sfruttano brutalmente la manodopera stagionale in quest'area. La notizia aveva i crismi dell'ufficialità, almeno in apparenza. Era stata infatti formulata dal coordinatore del Dipartimento immigrazione della Flai-Cgil Puglia, Ivan Sagnet, che però, successivamente, una volta convocato dai carabinieri, ha smentito tutto, dicendo che sul fatto (di cui prima si era dichiarato certo, facendone da megafono)non aveva informazioni dirette e che «ha solo appreso la notizia come voce che circolava all'interno del ghetto».
Chissà poi perché il sindacalista della Cgil denomini così («ghetto») la comunità locale degli immigrati stranieri e prevalentemente di colore fra i quali non c'è un ebreo nemmeno a cercarlo con il lanternino. Il motivo, intendiamoci, c'è. Ed è programmato per una ulteriore tappa verso la drammatizzazione programmata dei fatti, alla ricerca del titolo che sfondi la muraglia dell'indifferenza.
Infatti, se il quartiere dove vivono, anche se provvisoriamente, gli immigrati di colore che lavorano come stagionali nei campi del foggiano, è un ghetto, dopo che qui è stata fatta dolorosamente scomparire una persona mentre gli altri sono ristretti nella morsa della costrizione e del bisogno, si può legittimamente parlare di campo di concentramento (gulag, no; i gulag erano un'altra cosa, a parte il freddo, che non fu creato da Stalin, erano molto meglio. E poi, parliamoci chiaro: ci sono mai stati, i gulag?).
Ma torniamo al sindacalista della Cgil che ha propalato fandonie spacciandole per vere, assistendo poi, non solo senza fiatare, ma anche compiaciuto, alla loro diffusione esagitata su tutti i mezzi di comunicazione di massa e rassegnandosi a ridimensionare le sue affermazioni solo perché convocato dai carabinieri che avevano fatto subito delle indagini a tappeto e, non avendo trovato nessun riscontro al fatto abominevole, volevano sapere, dall'incautopropalatore, dove mai avesse appreso la notizia. A quel punto, il sindacalista della Cgil si è limitato a dire che «aveva sentito in giro questa voce e quindi non disponeva di alcun elemento certo, utile a rintracciare i testimoni o persone in grado di raccontare fatti utili al prosieguo delle indagini».
Fatti di questo genere, quando alla base c'è gente in malafede che li insuffla, sono purtroppo sempre possibili anche se essi, alla lunga, finiscono per togliere credibilità alla stampa professionale che è storicamente nata proprio per contrastare le voci, sostituendole con le notizie. In questo caso, invece, le voci (che prima dell'invenzione delle gazzette si diffondevano sì, ma adagio, di bocca in bocca, appunto) adesso si diffondono con una tale rapidità e istantaneità in tutto il mondo da rendere praticamente impossibile difendersi.
Ritorniamo al caso del sindacalista della Cgil boccalone per valutare meglio il danno e la parabilità di questi attentati alla verità dei fatti. Un tizio, interessato a destare interesse su di sé e sulla organizzazione sindacale che guida avvicina un giornalista d'agenzia. Gli racconta il fatto. Questo, essendo un fatto importante ed essendo stato riferito da una persona che, per mestiere e ruolo, è credibile nel fornirlo, viene messo subito in rete. Arriva quindi, immediatamente, nelle redazioni dei siti, delle radio e dei tg di tutt'Italia e viene pertanto mandato in onda senza alcuna esitazione (altrimenti arriva prima la concorrenza!), certificando così, attraverso la coralità delle fonti, la notizia, anche se questa è farlocca. Lo dicono tutti, quindi non può che essere vero. I giornali, di fronte a una notizia che si è autocertificata come vera, non possono che seguire a ruota, affannosamente e senza freni.
Ma questo può accadere il primo giorno. Il secondo giorno invece bisogna fare le verifiche che invece non sono state fatte. E poi, quando le cose sono chiare, aspetto questo ancor più importante, bisogna correggere l'informazione sbagliata con pari evidenza e con la medesima indignazione. Mentre, in questo caso, la correzione è stata fatta solo dai mezzi di informazione che sono orientati contro la Cgil. Deontologicamente, questo modo di comportarsi è deleterio per la credibilità dei media nel loro complesso.Infatti, se la notizia data si è rivelata sbagliata, la correzione non dipende dalla colorazione partitica o ideologica di chi ha propalato l'informazione sbagliata ma è un diritto che deve essere riconosciuto al lettore, anche il più filo-Cgil, perché ne possa fare l'uso che crede. Ma almeno è informato sui fatti. In caso contrario, i media si riservano il diritto di fare da mamma ai loro lettori, privandoli, quando è necessarioeper il loro bene, si intende, degli elementi di verità di cui tutti invece hanno diritto. Se si fa così, si cade nell'autocensura. Che è molto peggio della censura. Quest'ultima infatti si fa sotto costrizione. Mentre l'autocensura invece è una scelta, fatta solo per convenienza.
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