Perché sulle riforme costituzionali la minoranza pd ha perso un'occasione
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Nell'individuare in Napolitano un proprio avversario la sinistra massimalista dimostra l'incapacità di una qualsiasi riflessione critica sugli anni in cui ha guidato il partito
di Umberto Ranieri | 14 Agosto 2015 ore 13:41 Foglio
Nella acuta ricostruzione della disputa sulla riforma costituzionale, Salvatore Merlo osserva che sfugge a destra e a sinistra il carattere riformista dei recenti interventi di Giorgio Napolitano. Ho timore che, su questo punto, le cose stiano diversamente. Lasciamo perdere gli esagitati attacchi rivolti da destra a Napolitano. Su quel versante agisce un mix di frustrazione e incultura che rischia di debilitare l’organismo del centrodestra italiano fino a ridurlo a poca cosa con gravi conseguenze per un effettivo bipolarismo in Italia. Guardiamo invece all’offensiva che da sinistra (si fa per dire) viene condotta contro lo sforzo di Napolitano di “far quadrare i dati della sgangherata politica italiana”. Su questo versante non opera una sorta di “incomprensione verso il riformismo di Napolitano”. A riemergere è una antica ostilità al riformismo. Napolitano, storico leader di quella tradizione politico ideale, diventa (come in tanti passaggi delicati della vicenda politica del paese e della sinistra) un avversario.
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Ostilità al riformismo che, del resto, ha segnato la storia della sinistra italiana e ne ha reso ardua l’assunzione del profilo di forza in grado di candidarsi al governo del paese in piena autonomia. Sulla vicenda della riforma costituzionale colpisce la cecità dei gruppi minoritari e massimalistici del Pd. Come si fa, viene da chiedersi, a non considerare che in nessuna democrazia europea la seconda Camera è eletta direttamente? Che farlo significherebbe introdurre una ulteriore anomalia nell’ordinamento italiano? Che la proposta del governo segue i modelli di quelle democrazie parlamentari che non hanno adottato la scelta monocamerale ma hanno fatto della seconda Camera la sede della collaborazione all’attività legislativa delle autonomie regionali e locali. Né ha fondamento l’argomento di una seconda Camera di garanzia rispetto alla prima, considerato che le garanzie sono offerte dalla Corte Costituzionale e dal potere di rinvio delle leggi da parte del capo dello stato. Come si fa a non rendersi conto che, come ricorda Napolitano nella risposta a Scalfari, “in discussione non è uno schema astratto di riforma o un qualche puntiglio politico, bensì una esigenza vitale per un valido funzionamento del sistema democratico italiano”, che la questione di fondo è “non lasciare in piedi attraverso la elezione a scrutinio universale anche del Senato, la compresenza di due istituti rappresentativi della generalità dei cittadini”? Invece di misurarsi con tali argomenti si lascia circolare l’illazione infantile che l’impegno di Napolitano a favore della riforma non sia altro che un modo per sorreggere il governo Renzi. Quando è evidente, come ha ricordato Napolitano, che “l’approvazione della riforma sarebbe stata importante chiunque fosse stato il presidente del Consiglio”. La verità con cui non vogliono fare i conti gli oppositori alla riforma è che la questione del superamento del bicameralismo paritario viene da lontano; come ricorda Augusto Barbera, il bicameralismo perfetto è una anomalia italiana frutto della diffidenza reciproca alla Costituente tra i due grandi schieramenti. Né va dimenticato che la proposta di un assetto istituzionale fondato su una sola Camera è diventato, nel corso degli anni, patrimonio della cultura costituzionale della sinistra in tutte le sue componenti, condivisa da autorevoli costituzionalisti di matrice cattolica. E allora perché una tale grossolana condotta da parte di settori del Pd? Null’altro che risentimenti? Presunti conti in sospeso? Possibile ci sia addirittura chi torna all’autunno del 2012 quando, nel pieno di una drammatica crisi economica e finanziaria del paese, il presidente della Repubblica avrebbe dovuto sciogliere le Camere per consentire alla famosa “foto di Vasto” di spuntarla contro un centrodestra in disarmo? Per fortuna prevalse il senso degli interessi generali e si avviò un percorso di riforme che permise di scongiurare il fallimento del paese e rimise, pur tra mille difficoltà, in carreggiata l’Italia. C’è chi ritiene ancora oggi che il Quirinale avrebbe dovuto consentire al Pd di Bersani dopo la sconfitta del 2013 l’avventura di un governo minoritario alla ricerca del sostegno del M5s? Ma via!
Al di là dei risentimenti, in realtà emerge un problema di cultura politica. Secondo la minoranza interna al Pd, le riforme cui lavora il governo Renzi avrebbero una scarsa caratterizzazione di sinistra, ci sarebbe in sostanza uno snaturamento della tradizionale ispirazione di sinistra delle politiche di un governo di centrosinistra. Posizione fuorviante per vari motivi. Prima di tutto c’è da considerare che dal Jobs Act alla scuola e alla annunciata rivoluzione fiscale non sono mancati riferimenti a esperienze di coalizioni di centro sinistra in Europa; c’è inoltre da osservare che la caratteristica dell’azione riformatrice di un governo in un contesto aperto e democratico consiste nell’attenuazione di una dichiarata filiazione ideologica o di scuola dei progetti di riforma. Infine, riforme e cambiamenti si giudicheranno molto di più dalla loro efficacia e corrispondenza ai problemi di oggi che dalla loro presunta aderenza a criteri riconducibili alle esperienze della sinistra del secolo scorso. La verità è che la minoranza interna al Pd imputa a Renzi una carenza di cultura politica ma appare incapace di una riflessione critica sugli anni in cui ha avuto responsabilità rilevanti nella guida di un partito condotto a sconfitte politiche ed elettorali. Né appare in grado di suscitare interesse e discussioni intorno alla crisi evidente di motivazioni che attraversa il movimento socialista in Europa. Tutto sembra risolversi in conservatorismi e velleitarie ricerche di identità storicamente anacronistiche. La condotta preda di suggestioni passatiste e agitatorie avuta nel confronto sulla riforma dell’assetto costituzionale del nostro paese è la conferma di questo penoso epilogo di una componente che avrebbe potuto contribuire a dotare il Pd di una ispirazione culturale che si riferisse ai valori del socialismo liberale. A quanto pare non era questo il suo fine.
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