Perché riformare l'immunità mette in pericolo l'equilibrio dei poteri

La proposta del ministro della Giustizia Orlando di dare minor peso al voto delle camere sugli arresti dei parlamentari presuppone una falsa superiorità della magistratura sulla libera espressione del popolo sovrano

di Redazione | 04 Agosto 2015 ore 14:10

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La sortita del ministro della Giustizia su un'eventuale riforma delle residue immunità parlamentari, ridotte a una verifica dell’esistenza di una volontà distorta delle procure che chiedono l’arresto di un parlamentare, è probabilmente solo un espediente per smarcarsi dalle polemiche suscitate dal caso Azzolini, ma non per questo è meno grave. Afferma egli stesso che “l’attuale meccanismo è giusto e fondato”, ma poi si preoccupa del fatto che le deliberazioni parlamentari su questa materia assumano un carattere politico. Il fatto è che è proprio la natura politica della difesa dell’autonomia del Parlamento da un uso strumentale delle indagini e soprattutto della custodia cautelare che esprime il senso del dettato costituzionale. In base al principio della divisione dei poteri i Costituenti avevano stabilito una autotutela del potere legislativo da interventi considerati esorbitanti dell’ordine giudiziario. La storia ha dimostrato quanto fossero stati lungimiranti, e quanto è stato miope e subalterno il Parlamento che ha così profondamente mutilato questo principio basilare.

Se si dovesse intervenire nuovamente sul testo costituzionale bisognerebbe farlo per rafforzare le immunità e affidarle all’autonoma deliberazione della Camera di appartenenza dell’inquisito. Tutte le pretestuose polemiche che trasformano l’immunità in impunità dovrebbero, caso mai, essere indirizzate a esaminare l’impunità delle magistrature che intervengono a modificare la composizione della rappresentanza nazionale stabilita dalla sovranità popolare, spesso per procedimenti che poi finiscono in una bolla di sapone.

L’idea di sottrarre al Parlamento l’autotutela da intromissioni giudiziarie viziate da faziosità, per affidarla a un altro organismo di tipo giurisdizionale, come la stessa Corte costituzionale, nega la radice della divisione dei poteri e rende ancora più esplicita la subalternità della rappresentanza nazionale all’ordine giudiziario, di un potere elettivo a una funzione professionale, della cui indipendenza, peraltro, si può ben dubitare. L’idea che la politica, cioè in democrazia l’esercizio del mandato elettorale liberamente espresso dal popolo sovrano, sia un difetto che rende dubbia qualsiasi decisione, mentre l’esercizio della giurisdizione anche quando usa in modo malizioso e artato la lettera della legge tradendone la sostanza logica, sia sempre commendevole, è più che una sciocchezza, è una dimissione dalla propria funzione di chi esercita  una funzione politica essenziale come quella ricoperta da Andrea Orlando.

Non se ne farà nulla con tutta probabilità, lo stesso Orlando chiarisce che questa eventuale riforma costituzionale non può entrare nel pacchetto di quelle ora in discussione, il che significa che almeno in questa legislatura non c’è spazio per esaminarla. Questo però non basta a tranquillizzare chi crede in un equilibrio dei poteri che deve essere caso mai restaurato, non certo essere piegato ancora di più nella direzione antidemocratica del giustizialismo imperante. Alle polemiche sull’uso di un meccanismo di autotutela “giusto e fondato” si risponde rivendicando il diritto e il dovere politico del Parlamento di tutelarsi da intromissioni anomale, non con una specie di malcelata vergogna completamente fuori luogo.   

Categoria Italia

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