«No al blocco navale in Libia». Il generale Graziano: senza una risoluzione dell’Onu sarebbe un’azione di guerra
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Iraq, Afghanistan, Somalia, Libano - e ovviamente il bilancio da tagliare. Questa è la sua prima intervista.
Il Capo di Stato Maggiore della Difesa Graziano
di ALDO CAZZULLO, Corriere della Sera 21.6.2015
Il generale Claudio Graziano, 61 anni, piemontese di Villanova d’Asti, si è insediato tre mesi fa come capo di stato maggiore della Difesa, e si ritrova con l’Isis in Libia, gli sbarchi sulle coste, 4 mila uomini nei luoghi più pericolosi della terra - Iraq, Afghanistan, Somalia, Libano - e ovviamente il bilancio da tagliare. Questa è la sua prima intervista.
D.Generale Graziano, l’Italia è davvero preparata a fare la sua parte nel Mediterraneo? O siamo del tutto alieni all’idea della guerra, o comunque della difesa?
«L’Italia è stata coinvolta in molte missioni, ha avuto molti caduti, ma non ha mai avuto un disertore. Altri Paesi ne hanno avuti. In questi anni, mai un soldato italiano ha abbandonato il suo posto. A nessuno è mai mancato il coraggio di fronte agli attacchi».
D.Non mi riferisco al valore delle forze armate, ma alla cultura politica del Paese.
«Guardi che la percezione dell’Italia in Europa è cambiata moltissimo in questo tempo. E anche la percezione delle forze armate in Italia: ogni anno 80 mila giovani chiedono di entrare; cercano lavoro, certo, ma sono animati dalla spinta di aiutare gli altri. Tutto cominciò con la missione in Libano guidata dal generale Angioni: fu una sorpresa per tutti. Oggi noi in Libano abbiamo il comando in una regione delicatissima, dove si incrociano i due grandi archi di crisi: quello Sud, che sale dall’Africa, e quello Est, che scende dall’Ucraina».
D.Oggi nella percezione degli italiani l’emergenza è legata alla Libia, e agli sbarchi incontrollati sulle nostre coste. Il suo predecessore, ammiraglio Binelli Mantelli, in un’intervista a Fabrizio Caccia del «Corriere della Sera» ha detto in sostanza che l’operazione Mare Nostrum consentiva di padroneggiare la situazione meglio di Triton.
«Non mi permetto di commentare parole del mio predecessore. Oggi noi siamo impegnati nell’operazione Mare Sicuro, un’azione aeronavale per la sicurezza e il controllo che impiega quattro navi e aerei senza pilota, e si aggiunge al lavoro di Triton per il controllo delle frontiere. Credo che possiamo dirci soddisfatti».
D.Ma gli sbarchi continuano. Si invoca un blocco navale. Cosa ne pensa?
«Un blocco navale, in assenza di una risoluzione Onu o della richiesta del Paese interessato, è un’azione di guerra. Si fa contro un nemico. Sarebbe controproducente. Siccome in nessun caso viene meno il dovere di salvare le vite dei naufraghi, i barconi punterebbero contro le navi del blocco».
D. Ora l’Europa prepara una nuova missione, che dovrebbe avere un mandato Onu. Ma secondo lei è possibile chiudere la rotta di Lampedusa?
«Attendiamo di conoscere i contorni della missione. Credo sia possibile un’operazione di contrasto che punti a inabilitare i barconi e a perseguire i criminali. Si può assumere il controllo della situazione. Certo, quella che vediamo è l’avanguardia di un fenomeno epocale, che riguarda decine di milioni di uomini in fuga da carestia e guerra. Non è più un problema militare ma globale. La Libia è il collo di bottiglia di flussi che partono dall’Eritrea, dalla Somalia, dal Ciad, dalle Repubbliche centrafricane, dal Kenya. E dalla Siria».
D.Cominciamo dal collo di bottiglia. Ci sarà un intervento occidentale in Libia?
«In Libia l’Italia ha sempre svolto un ruolo di leadership, per interesse nazionale, per vicinanza culturale, per ruolo storico. Avevamo pure addestrato forze libiche, a Cassino. Anche oggi non abdichiamo alle responsabilità. Ma l’esperienza ci insegna che, per essere credibile e avere consenso, l’attività dev’essere sviluppata dalle forze locali; altrimenti si è all’anticamera dell’insuccesso. Prima ci deve essere un accordo tra le varie fazioni. Noi possiamo aiutare i libici a stabilizzare la Libia, sia con l’azione diplomatica, sia fornendo il supporto necessario».
D. Gli Stati usciti dalla fine dell’era coloniale non esistono più. L’Isis controlla vasti territori tra Siria e Iraq. Prima o poi bisognerà intervenire.
«Stiamo già intervenendo. L’Italia è in Iraq. Facciamo parte della coalizione internazionale anti Isis. Abbiamo 500 uomini tra il Kuwait, dove c’è l’aviazione, Erbil e Bagdad, dove siamo impegnati in un’azione di advice and assist : contribuiamo ad addestrare le forze irachene. Il problema deve essere risolto a terra dagli iracheni: noi dobbiamo metterli in condizione di poterlo fare. In Afghanistan è accaduto: le forze afghane dieci anni fa erano deboli e disorganizzate; oggi contano su 350 mila uomini tra soldati e poliziotti».
D. In Siria il nemico dell’Isis è Assad, dobbiamo sostenerlo?
«Noi non siamo in Siria. Le speranze sono affidate alla politica e alla diplomazia. E le regole della diplomazia inducono talora a considerare il nemico amico. Le organizzazioni internazionali devono dare una risposta globale alla crisi del Medio Oriente, perché tutto è intrecciato: collasso degli Stati; flussi migratori; terrorismo».
D. Gli sbarchi possono portare in Italia militanti dell’Isis?
«Come ha detto il capo della polizia Pansa, non ci sono evidenze che ci siano terroristi sui barconi. Un’organizzazione può infiltrare i suoi uomini in molti modi, anche senza i migranti. Il terrorismo c’è: l’Isis è in Iraq, in Siria, in Libia, in Algeria, nel Sinai. Il fatto che tenda a insediarsi stabilmente piuttosto che colpire ovunque, come faceva Al Qaeda, non deve indurci ad abbassare la guardia. Ma dobbiamo tener conto della loro abilità nell’usare le strategie di comunicazione, senza farcene troppo condizionare».
D. Maroni propone di mettere i soldati sui treni, «pronti a sparare». Lei che ne pensa?
«Non commento la proposta del presidente Maroni. Mi viene in mente che la linea ferroviaria Torino-Aosta era gestita dai militari... Noi abbiamo già settemila uomini impegnati nell’operazione Strade Sicure: l’ex presidente della comunità ebraica di Roma Pacifici ci ha ringraziato ad esempio per quanto stiamo facendo nell’antico ghetto. Siamo pronti a intervenire in ogni situazione in cui lo richieda il Paese, compatibile con la nostra professionalità. La sicurezza sui treni è però legata alla professionalità della polizia ferroviaria, che ha una preparazione specifica».
D. Come vivono i militari la vicenda dei due marò?
«La solidità della risposta dei fucilieri di marina Girone e La Torre è un esempio per tutti. Lo è il loro orgoglio, la loro dignità. La soluzione dev’essere politico-diplomatica».
D. L’esercito manterrà la stessa efficienza malgrado i tagli?
«Sì. Il ministero della Difesa ha promosso il libro bianco, un documento essenziale, che dispone in modo coerente i diversi elementi della questione sicurezza: le possibili minacce, l’evoluzione degli scenari, le risorse disponibili, le lezioni apprese nei vari teatri, le nuove esigenze di personale; da qui vengono individuate le aree di prioritario interesse del Paese. In questo modo si risparmia e si ottiene uno strumento interforze. Il nostro personale è straordinario, ma tenuto conto che c’è stata una professionalizzazione accelerata tende a risultare un pochino più anziano delle medie internazionali».
D. Dobbiamo ringiovanire l’esercito?
«Sì, tenendo conto dell’esigenza del personale e delle sue aspettative. E dobbiamo aumentare il rapporto con il mondo sociale. Le forze armate devono operare in sinergia con il resto del Paese, di cui rappresentano un ottimo biglietto da visita».
: Gli F35 vi sono proprio indispensabili? Tutti e 90?
«Sono già stati ridotti. Sono un’arma molto evoluta, indispensabile in alcuni scenari. Quando ti sparano addosso, un conto è rispondere con un mortaio da 120, un conto con una bomba sganciata da un aereo. Il numero finale sarà il frutto del processo di revisione strategica intrapreso dalla Difesa in base agli indirizzi del libro bianco».
D. È il centenario della Grande Guerra. Sono stati messi sullo stesso piano disertori e combattenti?
«No. L’Italia non ha messo sullo stesso piano i disertori e gli eroi che sul Piave hanno salvato la patria. È in atto una discussione per restituire dignità a chi l’aveva persa. Nella Grande Guerra abbiamo avuto oltre 600 mila morti, la metà in cento chilometri quadrati: era inevitabile che si creassero situazioni di disperazione. Cent’anni fa nessun esercito le avrebbe perdonate; ora è diverso».
D. Alla maturità solo il 2,5% degli studenti ha fatto il tema sulla Resistenza, impostato sul testamento del generale Fenulli. È rimasto deluso?
«Il tema storico viene tradizionalmente evitato: alla scuola di guerra l’abbiamo fatto in tre su duecento. Mi ha colpito semmai un altro dato. Accanto ai partigiani, nella Resistenza ci sono i militari. La caduta di prestigio, seguita alla gestione superficiale dell’armistizio, non ha fatto venire alla luce storie e sacrifici di cui oggi, con la nuova considerazione di cui godono le forze armate, possiamo andare orgogliosi». «No al blocco navale in Libia»
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