Perché Marino va difeso da una rottamazione imposta dai pm

Non mancherà a nessuno Ignazio Marino. Resta però una domanda da illuminare: per quale ragione Renzi e i suoi vogliono liberarsi del sindaco di Roma?

di Alessandro Giuli | 17 Giugno 2015 ore 19:28 Foglio

Non mancherà a nessuno Ignazio Marino, quando e se la sua stella cadente avrà liberato il Campidoglio, quando e se il Pd renziano avrà ultimato le procedure per costringerlo alle dimissioni da sindaco di Roma, in modo da mettere sotto tutela la Capitale e aspettare un vento nuovo di elezioni nel 2016. Marino non mancherà ai romani, che lo vivono come un curioso allogeno, ne misurano le inadempienze, si indignano a intermittenza per gli scandalucci e le ruberie varie, e poi tornano alla loro cronica, autoassolutoria e neghittosa autogestione. Ma forse i romani, per come sono stati ineducati, riuscirebbero a non rimpiangere perfino un buon sindaco.

ARTICOLI CORRELATI  Addio Marino  Marino, Roma e la “V” di vacca  Oltre Marino. Renzi e la ricerca di un’alternativa al partito del bene comune  Renzi mette all'angolo Marino. E in discussione c'è anche Orfini

 Resta però una domanda da illuminare: per quale ragione Renzi e i suoi vogliono liberarsi del sindaco di Roma? Se la linea ufficiale dei democratici è che Marino risulta innocente, e quindi va difeso dai sospetti d’una sua connivenza con gli accusati dell’inchiesta stracciacula detta anche mafia capitale, qual è allora la causa efficiente della sfiducia che gli si vuole infliggere? “Governi, se ne è capace”, dice all’ingrosso Renzi, ma lo dice nel momento stesso in cui fa capire che è giusto sacrificarlo come un bene minore rispetto ad altri e maggiori beni: la rispettabilità di un Pd da bonificare, la necessità che il governo si tenga lontano dagli schizzi di fango giudiziari, la convenienza di commissariare Roma con un uomo di fiducia prima che gli eventi, precipitando chissà come, inducano il Viminale a uno scioglimento della giunta comunale causa infiltrazioni mafiose. Ed eccolo qui il punto di minor resistenza nel teorema renziano: se giochi con le parole, se accetti di chiamare mafia quel che mafia non è, se dilati le fattispecie di reato penale e di oltraggio a un malinteso senso della morale dettato dalla procura del momento, poi devi assumertene le conseguenze. Nessuna esclusa. Che Marino non fosse il migliore dei sindaci capitolini possibili lo si sapeva da prima che vincesse le primarie (le primarie: altro luogo eletto del renzismo divenuto però, tutto d’un botto, poco frequentabile); che la sua amministrazione avulsa, incolore e cocciutamente pedonalizzatrice – invece di tappare le buche restringe gli spazi di percorribilità – godesse di un cattivo consenso non lo abbiamo scoperto, né noi né il presidente del Consiglio, grazie al signor procuratore Giuseppe Pignatone.

Non è una bella mossa, dissimulare sconcerto e insoddisfazione fuori tempo. E’ più onesto dire le cose come stanno: Renzi subisce, e non meglio dei suoi predecessori, la formidabile pressione mediatico-giudiziaria che come un cappio si stringe intorno al collo del decisore politico. E invece di rilanciare la sfida contro il bersaglio grosso, questa stracittadina inchiesta prêt-à-porter megafonata dalla solita megamacchina della delegittimazione politica a mezzo stampa, il premier decide di espettorare il bersaglio piccolo con uno starnuto ipocrita d’insoddisfazione. Il fato poteva risparmiarci Marino al Campidoglio, d’accordo, ma adesso lui viene punito da Renzi, e senza nemmeno il coraggio di ammetterlo, solo perché i pm l’hanno costretto in un buco con le manette intorno. Non è invece una buona ragione per difenderlo? Lo è. Ed è pure un monito per Palazzo Chigi, che non sta fuori dal raccordo anulare.

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata