Marino, Roma e la “V” di vacca

Il benecomunismo che uccide il mercato e la concorrenza e il keynesismo all’amatriciana alleato invisibile della corruzione. Che ha da ridere Ignazio? La barzelletta del sindaco della Morale diventato, ehm, presidio della legalità

di Claudio Cerasa | 10 Giugno 2015 ore 06:15

Ignazio Marino, si sa, è un sindaco tosto e tutto d’un pezzo, è dotato oltre che di una deliziosa bicicletta anche di un grande senso dell’umorismo, e deve essere stato per questo che due giorni fa, di fronte all’aggressione dei suoi amici a cinque stelle che in Campidoglio hanno provato con dolcezza a manifestare il proprio amore provando a occupare il comune, il sindaco della Morale ha scelto con fermezza di offrirsi ai fotografi mostrando due “v” formate con gli indici e i medi di entrambe le mani. La simpatia spiccata e nota del sindaco ci consentirà dunque di ironizzare sul fatto che quella “v”, intesa come “v” di vittoria, a noi ha fatto venire in mente un’altra “v”: la “v” di vacca. Niente di personale contro Marino, ma questa storia che il grazioso sindaco della moralizzazione si spaccia come il grande difensore della legalità, l’ultimo baluardo contro la diffusione della “mafia” a Roma (la mafia? Ma la vogliamo finire?) fa ridere come un tempo facevano ridere gli spettacoli di Beppe Grillo.

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L’inchiesta su Mafia Capitale (“non capisco perché la procura di Roma abbia utilizzato questa espressione”, ha detto ieri mattina ad “Agorà” l’eroico Emanuele Fiano, deputato del Pd) stavolta ci interessa fino a un certo punto. E quel che qui ci interessa spiegare è perché la corruzione che esiste nella Capitale vede come protagonisti del romanzo un gruppetto di cravattari e sfigati da quattro soldi che hanno trovato terreno fertile per le proprie presunte azioni criminali anche grazie a un sistema politico che non ha fatto nulla per disincentivare quelle sacche di inefficienza che da sempre contribuiscono a moltiplicare le occasioni per far prosperare l’illegalità. La “v” di Marino somiglia dunque più a una “v” di vacca che a una “v” di vittoria perché in questo “sistema” di sprechi il sindaco ha pensato che, per moralizzare il mondo e ripulire la città, potesse essere sufficiente giocare con i simboli, e dunque avvicinarsi al Movimento 5 stelle (do you remember il governo del cambiamento?), professarsi come un grillino democratico (e se legittimi la politica del troll non puoi lamentarti se il troll ti viene a bussare sulle vetrate del Campidoglio), fare del giustizialismo un cavallo di battaglia e infine piazzare un simpatico magistrato (Sabella) come rappresentante della lotta all’illegalità (a Roma, non ridete, c’è un assessorato ad hoc).

Spiace dirlo, perché Marino, come è noto, a noi della brigata Pittsburgh ci sta simpatico da tempi non sospetti, ma se a Roma esistono grandi focolai di corruzione lo si deve certo a chi si attacca illegalmente alle mammelle della mucca ma indirettamente anche a chi ha pensato che fosse sufficiente un grazioso selfie in bicicletta o una giovanile passeggiata con lo zainetto da marziano per ridurre la corruttela in città. Piccolo ripassino per il nostro Ignazio la Morale – e non per voler essere romanocentrici ma solo perché Roma e la sua amministrazione sono lo specchio perfetto di un pezzo d’Italia arancione che strozzando il mercato non fa quello che dovrebbe fare per promuovere la legalità. Domanda. Può essere un presidio di legalità un comune ultra burocratizzato che ha più di 60 mila dipendenti, praticamente più della Fiat, che in due anni è riuscito a liquidare solo due delle infinite aziende municipalizzate decotte che esistono nella Capitale, e che continua a fischiettare mostrando la “v” di fronte a società partecipate che riescono a rimanere in piedi solo grazie a equilibrismi politici e contabili, e che solo in una città come Roma e in un paese benecomunista come l’Italia possono continuare a essere mantenute sotto l’ombrello della cosa pubblica? C’è l’esempio dell’Atac, l’azienda dei trasporti pubblici, con 12 mila dipendenti, di cui la metà amministrativi e non autisti, con un miliardo e mezzo di debiti, una perdita che ogni anno sfiora i 100 milioni; c’è l’esempio dell’Ama, l’azienda che si occupa con successo discutibile della pulizia della Capitale, che conta ogni anno circa 800 milioni di debiti e che riesce a rimanere in piedi grazie alle entrate della Tari; e potremmo continuare per ore, ma per pietà ci fermiamo qui.

Da questo punto di vista, se vogliamo, il keynesismo alla vaccinara interpretato da Marino con particolare virtuosismo è uno degli ingredienti del disastro romano: di un tessuto produttivo devastato, e dominato ormai dall’economia della pizza a taglio, che attrae inevitabilmente la corruzione e disincentiva allegramente gli investitori. Roma oggi è questo. E se a Marino un giorno dovesse essere chiesto di fare un passo indietro sarà anche per non aver capito che la battaglia contro l’illegalità non si fa giocando con i magistrati e gli amici di Casaleggio ma si fa tenendo distante dal comune la “v” di vacca, e sporcandosi il più possibile le mani con due parole più rivoluzionarie di un accordo con Casaleggio: efficienza e concorrenza. Un bacino al sindaco dalla brigata Pittsburgh.

Categoria Italia

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