Quattro renziani per fare un Renzi
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Il Pd, le disavventure della disintermediazione, i quattro assi del premier
di Salvatore Merlo | 09 Giugno 2015 ore 06:03 Foglio
Roma. A Matteo Renzi, si sa, piace trottare senza scudieri, disintermediare, come si dice oggi, piuttosto che ingarbugliarsi l’anima e le orecchie dei referti di qualche compagno di partito. E insomma non delega ma accentra, non affida ma dispone, non si fida ma diffida, e ha costruito attorno a sé quasi una lunga tastiera di pianoforte, più che una ciurma capace di far navigare quel transatlantico del suo Partito democratico che, come s’è visto ieri sera nel corso della direzione nazionale, adesso ondeggia tra i marosi delle minoranze in armi: ogni uomo un tasto, ogni incarico una nota, ogni cognome un tono, un’emanazione dei suoi umori e delle sue regole. Dunque ecco Debora Serracchiani per mordere e Lorenzo Guerini per lenire, ecco Luca Lotti per i bassi da ultimatum e Maria Elena Boschi per gli acuti più brillanti, un po’ copertina patinata e un po’ giubbotto di tendenza per il governo-partito e il partito-governo.
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Ma circondato com’è, sempre più, da contestatori convinti e non alieni da potenti svaghi di tipo mondano e salottiero televisivo, dunque nemmeno privi di riflettori e di ribalta, avvolto com’è da guerre e guerriglie minacciate con gravità trionfante nel fragile Senato, al premier segretario si presenta adesso l’inedita urgenza di delegare, e stavolta sul serio. Dunque medita trasformazioni e ricombinazioni, spostamenti di ruolo, rimescolamenti, un Guerini di qua e un Ettore Rosato di là, un vicesegretario che diventa capogruppo e un capogruppo che diventa vicesegretario. Ma sarà sufficiente? L’assoluto dello slogan, la velocità di un tuìt, la perentoria collegialità del Whatsapp, funzionano quando sei saldo e potente, incontrastato ed evidentemente inscalfibile, quando sei insomma Rottamatore unico e dunque fatalità dei destini della sinistra italiana, ma forse funziona meno quando devi invece smuovere i pigri e impigrire i molesti, svuotare Bersani e isolare Bindi, placare Fassina e ascoltare D’Attorre, mobilitare le tue forze ed esercitare l’antica arte del negoziato, praticare la vecchia e faticosa ginnastica della politica, ovvero, nello specifico, cedere un po’ sul Senato elettivo, rivedere gli incarichi, accordare spazio e tribuna a oppositori da sconfiggere con accorte e studiate blandizie: condurre il gioco secondo le regole classiche, svelare la verità poco a poco, con cautela, farla balenare e dissimularla di volta in volta, irretire per tramortire.
Finora Renzi si è adeguato alle sprire contraddittorie della vita politica con un soffio di giocosa crudeltà, i suoi colonnelli hanno avuto l’obbligo della parola solo quando la mano del capo, autoritaria seppur delicata, li ha designati traendoli dallo stato di oggetti, dal caos di un’attesa indistinta. E la loro condizione, con esatta similitudine, è stata di strumenti, strumenti musicali in un’orchestra o strumenti meccanici in un ingranaggio: Lotti, che parla pochissimo, ma quando lo fa è appuntito come le cupole delle chiese protestanti, è stato l’uomo che chiudeva le partite per conto del capo (scaricò il sindaco di Venezia Orsoni, scaricò il patto del Nazareno, blindò in Liguria la signora Paita). Serracchiani ha invece squillato come un campanello quando c’era da masticare il nome di qualcuno, da abbattere e scartavetrare (“D’Alema? Avrebbe potuto dare un contributo diverso che non fosse tentare di mangiarsi l’ennesimo leader”). Mentre Guerini, con l’aria seria e solerte del bravo ufficiale, ha sempre interpretato il pensiero puro, ha recitato a comando la linea invalicabile del capo (vedi l’elezione di Mattarella al Quirinale). E Maria Elena Boschi, infine, è stata elevata quasi al rango di vicepremier, alter ego femminile, come davanti alla Confindustria così pure nei viaggi di stato all’estero, in Austria.
Forse non basta più, ora che ogni spicciolo atto dello stare in politica è per Renzi un improbo corpo a corpo, un cimento e un combattimento mortale, ora che serve mantenersi in equilibrio in un partito in cui gli avversari si incrociano, si sfiorano, si urtano, si pestano i piedi, si prendono sotto braccio, occhieggiano attorno a un lungo tavolo tra bottiglie di acqua minerale piantate come cipressi, si aggregano e si contano come una forza di controgoverno.