Senza élite non si governa. Un conto è sfidare la burocrazia, un conto è pensare di farne a meno
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in nome della battaglia anti casta. Burocrate doc spiega perché senza classe dirigente non si può cambiare il paese
di Carlo Deodato | 14 Maggio 2015 ore 19:30 Foglio
“La partecipazione dell’élite ai processi decisionali non contraddice il principio maggioritario su cui si fondano le democrazie, nella misura in cui la classe dirigente viene reclutata secondo criteri meritocratici”
Già Platone e Aristotele, seppur con accenti diversi (“socialista” ante litteram il primo e “liberale”, sempre ante litteram, il secondo), avevano identificato la migliore forma di governo nell’aristocrazia (non degenerata nella forma deteriore dell’oligarchia), intesa, in senso etimologico, come governo dei migliori (e non come classe sociale). I filosofi ateniesi avevano, in particolare, compreso come un’amministrazione giusta e virtuosa della pòlis esigesse la partecipazione al governo dei cittadini più saggi, retti e capaci. La semplicità dell’organizzazione delle città greche favoriva la riflessione politica sulla bontà del governo aristocratico. Nelle società contemporanee la questione è complicata dalla complessità dell’architettura dello Stato moderno, dall’eterogeneità dei suoi compiti e dal tecnicismo delle funzioni affidate alle magistrature di governo.
Nondimeno, la concezione filosofica e politica di Platone e Aristotele resta attuale ed è stata declinata dai sociologi e politici moderni secondo la dottrina dell’elitismo.
Sulla base dell’osservazione empirica che l’amministrazione della res publica è naturalmente affidata a una minoranza (anche nei regimi democratici e senza alcuna contraddizione con il principio maggioritario che li regge), Pareto, Mosca e Michels, riprendendo alcune riflessioni di Max Weber sulla “superiorità del piccolo numero”, hanno teorizzato, agli inizi del secolo scorso, l’esistenza di élites, classificandone tipologie e ruoli, alle quali resta fisiologicamente riservato il governo della vita politica, sociale, culturale ed economica di uno Stato.
Si tratta di una concezione anti ideologica originata dalla semplice constatazione (Dahrendorf) che in tutte le organizzazioni complesse i ruoli direttivi vengono di fatto (e inevitabilmente) assunti da una minoranza di persone (spesso dotate di cultura e competenze superiori), che ne determinano l’amministrazione e lo sviluppo (anche se Dahl segnala il pericolo della degenerazione di tale modello, potenzialmente virtuoso, in una dannosa lotta di potere tra diverse élites).
E ciò accade non solo nella politica, ma anche nella cultura e nell’economia.
Nelle società liberali e democratiche all’élite politica vera e propria, costituita dai maggiori responsabili della funzione di governo e di quella legislativa, si affianca, in posizione di collaborazione (più o meno coinvolta nei processi decisionali), un’élite amministrativa (alla quale appartiene la classe dirigente non eletta).
Nelle organizzazioni contemporanee si sono strutturati, infatti, alcuni corpi scelti (coincidenti con l’alta amministrazione e con le giurisdizioni superiori) dove si sono radicate e sono cresciute competenze, conoscenze e professionalità delle quali l’élite politica si è sempre servita per elaborare, amministrare ed eseguire, con maggiore efficacia e utilità, le decisioni pubbliche affidate alla sua responsabilità.
Secondo la fisiologia dei rapporti tra classe politica e classe dirigente, la legittimazione elettiva della prima e quella tecnica della seconda si riconoscono a vicenda in un virtuoso circuito di lealtà istituzionale e cooperano alla ricerca del bene comune dei cittadini amministrati.
La partecipazione dell’élite amministrativa ai processi decisionali non contraddice il principio maggioritario su cui si fondano le democrazie (come hanno chiarito lucidamente Mannheim, Schumpeter, Lasswell e Sartori), nella misura in cui la classe dirigente viene reclutata e selezionata secondo criteri effettivamente meritocratici (e non secondo oscure dinamiche di cooptazione politica) e, soprattutto, presta la sua competenza tecnica ai decision o policy makers secondo una chiara e riconoscibile distinzione dei ruoli e delle responsabilità (senza che trasmodi, in altri termini, nel fenomeno deteriore della tecnocrazia oligarchica e deresponsabilizzata).
ARTICOLI CORRELATI Riformista sburocratizza te stesso Un Nazareno digitale. Perché l’Italia riparte solo se informatizzata Questo modello di collaborazione viene ordinariamente utilizzato per il governo delle società più complesse, nelle quali tecnica e politica sono “costrette” a stipulare intese e a stringere alleanze di cooperazione.
L’Esecutivo in carica ha, tuttavia, interrotto questa prassi, consegnandoci un’inedita situazione di scollamento tra classe politica e classe dirigente.
La classe politica governante (composta, per la prima volta, da pochissime persone) ha, infatti, manifestato chiaramente l’intendimento di trascurare la tradizionale collaborazione dell’élite amministrativa e di preferire un’assunzione diretta ed esclusiva delle responsabilità decisionali, nel sottinteso presupposto che la partecipazione della classe dirigente all’azione di governo potesse rallentare o (addirittura) ostacolare il processo di cambiamento fortemente voluto dall’Esecutivo in carica ed indirizzato (tra l’altro) proprio a una profonda revisione dell’ordinamento delle amministrazioni e delle giurisdizioni che tradizionalmente esprimono l’élite estromessa dalle decisioni.
Ma è possibile prescindere dall’ausilio o dalla collaborazione dell’élite amministrativa? O, addirittura, progettare riforme, non solo senza, ma contro di essa? No, non è possibile. O, meglio, sì, ma con la consapevolezza che in tal modo il processo di cambiamento (che, occorre riconoscerlo, si rivela necessario sotto più profili) rischia di risultare velleitario e inefficace.
E ciò per almeno due ragioni.
Innanzitutto, perché solo l’élite amministrativa possiede la conoscenza e la competenza necessarie per progettare ed eseguire un’efficace ridefinizione della propria organizzazione e delle proprie funzioni, in quanto unicamente consapevole delle reali esigenze di revisione del proprio ordinamento e dei corrispondenti interventi necessari.
E, poi, perché l’imposizione di decisioni non condivise o, comunque, non governate d’intesa con i vertici (o con gli esponenti più influenti) delle strutture destinatarie del progetto di cambiamento e, in ogni caso, non generate da una visione strategica e partecipata della nuova missione assegnata alle stesse, finisce per suscitare inevitabili resistenze culturali e fisiologiche reazioni intellettuali all’accettazione del nuovo status (non condiviso) e, più in generale, per produrre difficoltà applicative che possono addirittura vanificare l’utilità delle riforme.
Né varrebbe obiettare che il coinvolgimento della classe dirigente nei processi decisionali che riguardano proprio il suo status e i suoi compiti sarebbe (quello sì) del tutto inutile, se non dannoso.
Avvertiva, in proposito, Pareto che ogni élite si compone naturalmente di due categorie di persone: quelle sensibili al cambiamento e quelle orientate alla conservazione.
E’ chiaro che un Esecutivo che intenda lucidamente innovare profondamente l’ordinamento dell’amministrazione pubblica dovrà stringere un’alleanza con la componente dell’élite amministrativa più illuminata e consapevole della necessità del cambiamento della società, ma anche delle proprie strutture e del proprio ruolo, e non potrà fare a meno di tale intesa.
Solo quest’ultima, infatti, permetterà il concepimento e la produzione di riforme utili, efficaci e, soprattutto, assimilabili (senza crisi di rigetto) dal sistema.
La pretesa, viceversa, della gestione esclusiva ed escludente del processo di cambiamento rischia, infatti, di produrre il devastante effetto di un vero e proprio sgretolamento istituzionale.
La diffidenza (anche solo unilaterale) tra classe politica e classe dirigente frantuma l’edificio della res publica e genera le macerie della disgregazione.
La classe dirigente di un Paese è la sua linfa vitale, tanto che nei passaggi da regimi autoritari a regimi democratici è stata in grande misura mantenuta (come è accaduto alla Germania postnazista, all’Italia postfascista, al Giappone postbellico e alle repubbliche originate dal dissolvimento dell’Unione Sovietico), e la sua esclusione dalla partecipazione ai processi decisionali rischia di indebolire e di far fallire ogni tentativo, per quanto vigoroso, di cambiamento.
Stiamo assistendo, in definitiva, a una rivoluzione monca, fragile, fallace, che si presta a svanire rapidamente nella più gattopardesca eterogenesi dei fini.
Machiavelli diceva che i principi che si atteggiano come volpi (anziché come leoni) durano più a lungo, perché sono più scaltri. E aveva ragione. Sennonché la vera astuzia consiste nell’intendersi con la parte migliore della classe dirigente. E non nel mortificarla o nel farle la guerra. Che non sono affatto mosse astute.
Carlo Deodato è consigliere di stato, ex capo del Dipartimento degli affari legislativi (Dagl) durante la presidenza del Consiglio guidata da Enrico Letta
Cat. Italia