L’immigrazione ostaggio di opposti estremismi
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Non si fermano i clandestini con la semplice militarizzazione delle coste. Idee e ipotesi per discutere seriamente del problema, senza invocare l'assistenzialismo né volerli cacciare tutti.
di Carlo Lottieri | 20 Aprile 2015 ore 11:08 Foglio
Al direttore - Quando si discute di immigrazione l’Italia appare prigioniera di opposti populismi: divisa tra chi vorrebbe uno Stato che assista chiunque arrivi sulle nostre coste e chi, all’opposto, sarebbe felice di allontanare tutti, consapevole che si tratti duna proposta elettoralmente assai pagante. In pochi si rendono conto che è necessario valorizzare un’immigrazione utile a chi viene in Italia e anche a noi stessi.
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La questione va dunque al più presto "depoliticizzata". In altre parole, è necessario che si delineino poche e ragionevoli regole che descrivano in che modo è possibile venire qui a vivere e lavorare, evitando una volta per sempre di caricare i costi dell’immigrazione su chi paga le imposte. Abbiamo bisogno di norme semplici (meglio se definite localmente) che vanno fatte rispettare, ben sapendo che la nostra società ha bisogno in molti casi del contributo dei lavoratori stranieri e al tempo stesso si deve prestare la massima attenzione a non caricare i costi di tutto questo sulle spalle dei contribuenti.
In ambito liberale le discussioni teoriche degli ultimi decenni hanno spesso visto contrapporsi visioni che aiutano a cogliere come il dibattito attuale radicalizzi esigenze pure sensate. Taluni (un nome per tutti, Milton Friedman) hanno difeso l’idea di frontiere aperte, nella persuasione che non si possa sbarrare la strada a chi è in cerca di una vita migliore. Tanto più che l’economia trae beneficio dal contributo di nuovi arrivati. Altri hanno però sostenuto – è questo il caso di Hans-Hermann Hoppe – che tutto ciò sarebbe vero in assenza della redistribuzione statale. Nella situazione odierna muoversi dall’Africa all’Europa significa accedere ai benefici del welfare: e quindi un’immigrazione senza limiti proveniente dalle aree più povere del pianeta può generare un parassitismo destinato a suscitare notevoli resistenze.
Entrambe queste tesi vanno prese in seria considerazione, poiché un’Italia chiusa su se stessa sarebbe destinata a declinare velocemente, ma al contempo ogni apertura dovrebbe essere accompagnata da una riduzione dell’intervento pubblico. Le spese assistenziali collegate all’arrivo dei migranti sono benzina sul fuoco delle tensioni etniche. Da questo discende che gli oneri dell’immigrazione devono essere sostenuti il più possibile dagli stessi immigrati, dalle imprese che ne hanno bisogno e dalle associazioni di volontariato frutto dell’altruismo di tanti connazionali.
Già ora è così in vari casi. È interessante sottolineare che per venire in Italia i migranti sono disposti a pagare cifre piuttosto alte. Oltre a ciò, spesso costi significativi gravano sulle imprese interessate a dare lavoro a quanti vengono da lontano: basti considerare il rapporto esistente tra le aziende agricole e i loro dipendenti pakistani o indiani, ma anche alle famiglie che ospitano le donne filippine o ucraine che si prendono cura dei nostri anziani.
Togliere spazio ai centri di accoglienza pubblici e rafforzare il ruolo dei soggetti profit e no-profit permetterebbe di avere una migliore immigrazione e abbassare le tensioni che oppongono quanti militano a favore del solidarismo e quanti, al contrario, vorrebbero un’Italia integralmente chiusa su se stessa.
Un recente studio della London City University – realizzato da Alice Mesnard ed Emmanuelle Auriol – ha avanzato la proposta di “vendere” i permessi d’ingresso. L’idea di fondo è che “il traffico di esseri umani costituisce un rischio enorme per i migranti, permette alle organizzazioni criminali di guadagnare denaro e ostacola i governi nelle attività di regolamentazione dei flussi di persone che attraversano le loro frontiere. Se lo scopo è controllare i flussi migratori ed eliminare i trafficanti, un'idea migliore è quella di abbinare le politiche di repressione alla vendita di visti a prezzi che taglino fuori dal mercato i trafficanti”. Se esistono immigrati africani o asiatici disposti a versare somme significative per venire in Europa, ha senso fare in modo che questo flusso sia legale e che quel denaro sia utilizzato per individuare un canale regolare, oltre che per acquistare un normale biglietto aereo, trovarsi una casa sul mercato e poter cercare un lavoro.
Non c’è dubbio che attualmente l’immigrazione sollevi anche a problemi di ordine pubblico, ma proprio per questo è bene portare alla luce il fenomeno, sottraendolo ai criminali che gestiscono un business in crescita e reperiscono in tal modo risorse poi impiegate pure in altri settori.
L’ipotesi della vendita dei visti d’ingressi si basa su logiche privatistiche. Nasce dalla presa d’atto che gli italiani hanno investito risorse nel costruire quelle strutture (scuole, ospedali, strade ecc.) da cui gli immigrati trarranno beneficio. La vendita dei visti interpreta la logica del club: non totalmente chiuso, ma nemmeno aperto a tutti. Si può entrare, ma conoscendo le regole, rispettandole e pagando una quota d’accesso.
D’altra parte, la maggior parte degli immigrati non arriva in Italia a bordo di barche alla deriva. Essi giungono nelle nostre stazioni e nei nostri aeroporti. Senza che molti se ne accorgano, ogni giorno tantissimi stranieri vengono in Italia con visti turistici e poi diventano clandestini. Questo dovrebbe farci comprendere che l’immigrazione illegale non può essere sconfitta con la semplice militarizzazione delle coste.
Eliminare ogni politica assistenziale a favore degli immigrati è cruciale, ma non basta. Bisogna infatti avere presente che ogni abitazione pubblica assegnata a uno straniero, ad esempio, è un assist ai fautori delle logiche più ostili all’arrivo degli stranieri. Si deve allora restringere l’ambito dell’intervento pubblico nel suo insieme, poiché a dispetto delle logiche universalistiche tanto proclamate il welfare State rafforza la distanza tra cittadini e non cittadini, tra insider e outsider. Una società non può essere aperta all’arrivo di immigrati si condivide quasi ogni cosa: dalle case alle imprese, dalle pensioni alla sanità.
Solo una società più liberale, a limitato intervento statale, può essere davvero disposta ad aprirsi.