Se lo Stato non difende il cittadino, il cittadino può difendersi da solo?
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Immaginate che il Corpo dei vigili del fuoco non riesca a spegnere tutti gli incendi che si sviluppano in Italia e che il governo e il Parlamento decidano che quelli di piccola entità siano lasciati a se stessi.
di Domenico Cacopardo Italia Oggi, 16.5.2015
Immaginate che il Corpo dei vigili del fuoco non riesca a spegnere tutti gli incendi che si sviluppano in Italia e che il governo e il Parlamento decidano che quelli di piccola entità siano lasciati a se stessi. Naturalmente, dai piccoli incendi si svilupperanno incendi più gravi e diffusi, tali da mettere in discussione centri abitati e attività commerciali. «Una ipotesi paradossale», penserete. Invece non è così: quello che è accaduto con la depenalizzazione di reati «tenui» è qualcosa di simile, pur rimanendo sul tappeto una differenza sostanziale. Per gli incendi, i cittadini hanno il diritto e, in qualche caso, il dovere di intervenire, senza attendere l'arrivo delle autobotti. Per i reati, gli interessati non possono intervenire, pena vedersi perseguiti per reati non tenui, di reazione a reati tenui.
Secondo logica, se lo Stato si ritira dalle strade, abdica ai suoi doveri in materia di sicurezza pubblica per venire incontro alle esigenze di una corporazione rivelatasi incapace di offrire i servizi richiesti dalla popolazione (di «servire» come dovrebbe il popolo, nel cui nome adotta le sue decisioni), dovrebbe al contempo allargare le maglie della legittima difesa e dell'autorizzazione al porto di armi per difesa personale. Certo, una follia, come s'è dimostrato con il caso del tribunale di Milano e con le altre decine di casi di aggressioni a impiegati comunali, a operatori delle Asl, ad addetti di Equitalia, accaduti dal 1° gennaio 2015, ma dimenticati dalla stampa nazionale. Se a essi si fosse porta un po' di doverosa attenzione, probabilmente, qualche procuratore generale avrebbe deciso di imporre regole più stringenti in materia di controllo degli accessi ai tribunali.
Ma la questione, come avevamo promesso, non può essere abbandonata, giacché, spulciando l'elenco infinito dei reati non punibili se «tenui», ne vengono fuori di belle o, se preferite, di incredibili. In realtà, quello che metteremo in rilievo è che, profittando del decreto delegato, il governo-legislatore s'è ampiamente occupato dei reati in cui incorrono frequentemente i politici, trasferendoli nella categoria dei «tenuibili», a condizione che in pochi giorni la parte lesa non si opponga all'archiviazione.
Cominciamo con l'abuso d'ufficio, che è una infrazione tipica del pubblico ufficiale. È certamente vero che, dopo i precedenti interventi legislativi, questo reato è residuale, nel senso che viene utilizzato dall'autorità giudiziaria quando non si riesce a invocare la corruzione o la concussione. Ma è altrettanto vero che, iscrivendolo alla categoria «attenuata», si concede ai pubblici ufficiali e soprattutto ai pubblici amministratori una sanatoria forte e generale su una materia che li ha tanto «disturbati» in passato. Se pensiamo al caso dell'ex sindaco di Salerno, ora candidato alla presidenza della regione Campania, Vincenzo De Luca (che su queste colonne abbiamo difeso con convinzione), probabilmente, con le nuove norme, non ci sarebbe nemmeno stato il processo che l'ha condannato proprio per abuso. Fra l'altro, la schizofrenia imperante fa coesistere il reato «depenalizzato» con l'obbligo di sospensione dai pubblici uffici, introdotto dalla nota Paola Severino, disastrosamente passata dagli uffici di via Arenula (ministero della giustizia).
C'è poi la falsità materiale del pubblico ufficiale, art. 477 del codice penale: «Il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, contraffà o altera certificati o autorizzazioni amministrative, ovvero, mediante contraffazione o alterazione, fa apparire adempiute le condizioni richieste per la loro validità, è punito ». Tralasciando l'uso demenziale delle virgole, rimane il fatto che si tratta di un contesto molto delicato che può incidere sulle situazioni soggettive. Sento l'osservazione: «Ma il cittadino se ne accorge facilmente ». Ma se pensate che una certificazione alterata può consentire a una ditta in odore di mafia di partecipare a un appalto e di vincerlo, vi renderete conto che non si tratta di un «reatino da due soldi».
Aggiungiamo la frode nelle pubbliche forniture, l'omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale (che magari avrebbe da denunciare tante illegalità del suo capo, assessore o sindaco o presidente di regione), la rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio e di segreti inerenti a un procedimento penale (casi questi tipici degli operatori di giustizia mai perseguiti), il rifiuto e l'omissione di atti d'ufficio e il traffico di influenze illecite (introdotto per consegnare ai magistrati un'arma nei confronti di coloro che concorrono a elezioni). Si delinea, quindi, un quadro di interventi rivolti al «palazzo», sui quali andrebbero disposti approfondimenti e, se possibili, valutazioni critiche.
La cosa che più impressiona, a questo punto, è il fragoroso silenzio della stampa nazionale e dei media, tutti rivolti al pettegolezzo spicciolo, al «colore» degli avvenimenti politici quotidiani, mai a un'analisi puntuale delle invenzioni di quella politica di cui è tributaria, in quanto suo costante megafono. Certo, ognuno lavora secondo scienza e coscienza. Ma è evidente che la coscienza è un concetto elastico che, nel nostro Paese, confina con la complicità.
Domenico Cacopardo