I sommersi, gli scampati e i signori (libici) degli sbarchi
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Un 2015 peggio del 2014. Come funziona la catena di salvataggio. Cosa può fare la polizia (poco). Le nuove rotte. L’ultimo a essere fermato, sabato scorso, è stato uno scafista tunisino, con molti, troppi, alias e un lungo curriculum di attività criminali in Italia, fra cui una rapina in un hotel della riviera romagnola
L'arrivo di migranti al porto di Augusta, il mese scorso (foto LaPresse)
di Cristina Giudici | 15 Aprile 2015 ore 09:40
Milano. L’ultimo a essere fermato, sabato scorso, è stato uno scafista tunisino, con molti, troppi, alias e un lungo curriculum di attività criminali in Italia, fra cui una rapina in un hotel della riviera romagnola. Quando è stato arrestato, nel porto di Augusta, ha reagito con disinvoltura: “Non chiamate l’interprete”, ha detto, “parlo benissimo italiano”. Sono tornati. Dopo una breve pausa, dovuta al maltempo e agli scontri con le milizie dell’Isis in Libia, i trafficanti di esseri umani hanno ripreso le rotte del loro proficuo commercio, che ora pare essere controllato in parte anche dai tagliagole dello Stato islamico. Così due giorni fa nel Canale di Sicilia hanno inviato una bomba umanitaria: quasi quattromila migranti in un giorno solo. Ieri notte è approdata nel porto di Palermo la nave della guardia costiera con 1.169 profughi. Per il Viminale è già emergenza: servono nuove strutture di accoglienza, i comuni si preparino a fare la loro parte (dichiarazioni di Matteo Salvini e tutto quanto fa cinico o umanitario spettacolo). Per il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni “il problema immigrazione va risolto alla radice”.
Nei giorni scorsi sono state 27 le richieste di soccorso lanciate con i telefoni satellitari dalle carrette fatiscenti e 22 i cadaveri. Da sommare ai 2.000 arrivati nello scorso weekend e ai 1.500 sbarcati nel ponte di Pasqua. Dopo un breve armistizio, le milizie dei trafficanti hanno lanciato una nuova offensiva. Che per la prima volta, dopo un anno, ha travolto anche Palermo. Il capo del dipartimento dell’Immigrazione del Viminale, il prefetto Mario Morcone, aveva già detto pochi giorni fa: “Ci aspetta un’estate preoccupante, dal gennaio 2015, nonostante la flessione di marzo, sono sbarcati quasi 12 mila migranti”. Chi lavora, con pochi mezzi e molta fantasia, nel backstage dei porti orientali della Sicilia, non si fa molte illusioni. Il 2015 sarà identico, se non peggiore del 2014. Con meno mezzi e meno finanziamenti, si continuerà a soccorrere migranti nel Canale di Sicilia, ad arrestare scafisti, ad accogliere i salvati, a seppellire i morti. E si continuerà a fare indagini sui trafficanti libici collegati ai basisti in Italia, che prima arrivano come profughi e poi si organizzano per lucrare sui viaggi di terra e permettere a chi è sbarcato di raggiungere il nord Europa (vedi box in pagina). Per le squadre di soccorso e di investigatori che sin dall’inizio delle primavere arabe affrontano la “guerra umanitaria” a mani nude, nella trincea mobile dei porti della Sicilia orientale, la conclusione di Mare Nostrum nel dicembre scorso, missione coordinata dalla marina militare e il varo di quella europea Triton non hanno cambiato nulla. Ora la regia è passata alla Guardia costiera, coadiuviata dalla Marina militare, che discretamente sorveglia le coste libiche con qualche fregata, i sommergibili e gli elicotteri, ufficialmente per una missione di addestramento: Mare Aperto.
Rispetto ai primi quattro mesi del 2014 il numero delle persone soccorse è aumentato e le rotte si sono diversificate: carrette e gommoni approdano anche in Puglia e in Calabria (670 profughi dell’Africa subsahariana l’ultimo arrivo), spesso alla spicciolata, senza chiedere soccorsi. In piccoli comuni, che fino a ora non erano stati meta di approdo degli sbarchi. E per la prima volta fra somali, siriani, eritrei, iracheni, palestinesi, pachistani, sono arrivati anche dei libici. Come è successo prima di Pasqua in Calabria, dove i carabinieri hanno fermato un gruppo di libici sbarcati sulle coste italiane senza chiedere soccorso. Un evento a margine, esterno alla catena di montaggio organizzata in Sicilia, che suscita inquietudine fra gli investigatori: si temono infiltrazioni di islamisti. Nell’ultimo rapporto redatto dopo Pasqua dal Gicic, il Gruppo di intelligence interforze di contrasto all’immigrazione clandestina creato all’interno della procura di Siracusa nel 2006, si descrive un’operazione congiunta di marina militare e guardia costiera che hanno individuato, inseguito e fermato una barca con un gruppo di trafficanti a bordo. Fra loro c’era anche un libico, Amran Dahan, di Zuwarah, ora nel carcere di Siracusa, che desta preoccupazione per via dei numerosi contatti in Italia, individuati nella sua rubrica telefonica. Ed erano libici i trafficanti che la notte scorsa hanno sparato alla Guardia costiera, per riprendersi il loro barcone sequestrato.
ARTICOLI CORRELATI Cogliere l’attimo in Libia Porgi l’altra diplomazia Renzi a Malta spinge sul petrolio e sul piano per la Libia La macchina di soccorso-controllo ha un copione fisso. La Guardia costiera segnala l’arrivo dei barconi soccorsi, che vengono distribuiti fra diversi porti, sempre più numerosi: Porto Empedocle, Pozzallo, Augusta, Catania, Palermo. Ovunque c’è un piccolo team di poliziotti, di carabinieri, della Guardia di Finanza, affiancati da operatori sanitari e da volontari di associazioni umanitarie, che si recano al porto di competenza per dividere i profughi dai migranti. E con il supporto di interpreti arabi, africani, asiatici, cominciano a fare le indagini. I profughi, rifocillati e assistiti, vengono trasferiti nei centri di accoglienza, che scoppiano, mentre i migranti, che non scappano dalle guerre, vengono rimpatriati. Ma negli uffici della capitaneria di porto, quelli che vogliono collaborare vengono separati dagli altri sbarcati per farli deporre e poi, eventualmente, testimoniare ai processi. In cambio di un migliore trattamento e di qualche facilitazione per restare in Italia. Sono sempre più numerosi quelli che accettano. Per vendicarsi, anche, dei torti subiti: i maltrattamenti durante il viaggio le sevizie fisiche e psicologiche da parte dei libici che li hanno tenuti prigionieri per mesi prima della partenza, a volte legati come bestie nei magazzini vicini alla costa. Dopo viaggi durati anni, durante i quali sono stati venduti a diverse bande di trafficanti. Oppure obbligati a salire su carrette fatiscenti, con bastoni e armi, anche con il mare in tempesta, sapendo di andare incontro alla morte. Dietro le quinte, i protagonisti sono gli interpreti, che spesso operano ufficiosamente come investigatori. Traducono le testimonianze, annusano la sete di vendetta dei profughi e tastano il terreno per capire chi può essere reclutato come confidente per infiltrarsi nelle organizzazioni di trafficanti. Se c’è il tempo, vengono avviate indagini per cercare di smantellare le cellule dei basisti in Italia. Ma questo si può fare se non si deve affrontare uno sbarco ogni due giorni. Durante i soccorsi in mare, ufficiali della guardia costiera o della marina militare possono raccogliere i primi dati investigativi. Altrimenti si prende lo scafista di turno, che magari è solo uno scafista per caso e lo si mette in carcere. Dove poi patteggia la pena, viene rimpatriato e ricomincia da capo. Se invece ci sono i morti da identificare o un naufragio – qualche volta organizzato dagli stessi trafficanti dopo aver incassato la somma del viaggio per impedire che la barca venga sequestrata e demolita dalle autorità italiane – allora le squadre miste di carabinieri e poliziotti si trasformano in un ufficio persone scomparse. Si contattano i parenti in Europa, grazie ai social network, per identificarli grazie a un oggetto, un lembo di una vestito. Oppure si consegnano alle famiglie gli effetti personali rimasti in una borsa: un documento strappato, una lettera, qualche banconota logora. Più spesso, quegli oggetti rimangono come feticci chiusi in qualche scatola, in qualche questura, come traccia di una memoria dispersa nel Canale di Sicilia, diventato Mare Monstrum. La sede del Gicic di Siracusa, unica squadra di intelligence creata dieci anni fa per combattere l’immigrazione clandestina, è da tempo una specie di macabro museo dell’immigrazione clandestina. “Abbiamo persino un angolo dedicato agli scomparsi, l’abbiamo ribattezzato monumento ai caduti”, è l’ironia amara del coordinatore del Gicic, il commissario Carlo Parini, che nel 2014 ha coordinato oltre 200 sbarchi di 45 mila migranti. Nel porto di Pozzallo, più a oriente, dove lavora la squadra mobile di Ragusa, guidata dal commissario Antonino Ciavola – 28 mila sbarchi nel 2014 – ci si affida alla tecnologia. Si ricostruiscono le tappe del viaggio dalla Libia e delle stragi avvenute su video 3D, grazie all’apporto della scientifica. Così nelle questure e nelle procure della Sicilia, dopo ogni sbarco, si può assistere a un diverso traffico di immigrati: interpreti, collaboratori di giustizia, confidenti, testimoni, vittime, famiglie in cerca di parenti. Tutte le informazioni rilevanti che possono servire a risalire la filiera dei trafficanti, e a configurare il reato associativo, confluiscono alla procura di Catania, dove esiste una sezione di Direzione distrettuale antimafia e nel 2013 è stato creato un pool dedicato all’immigrazione clandestina guidato dal procuratore aggiunto, Carmelo Zuccaro.
Nei centri di accoglienza, dove funzionari di Frontex e del Viminale fanno mille interviste per cercare di individuare qualche linea retta nel magma dell’esodo umanitario, c’è sempre un profugo che ha pregato di non essere identificato, per non essere costretto a chiedere asilo o rifugio in Italia, come previsto dalla Convenzione di Dublino, e raggiungere la famiglia in Olanda, in Francia, in Germania, in Norvegia. E c’è sempre un falso profugo che esce dai centri di accoglienza con l’elenco dei nomi degli sbarcati per avvisare l’organizzazione in Libia, in un quartiere di Tripoli, che il carico è arrivato a destinazione. Per poi aiutarle a fuggire, non identificate, verso nord. Così, mentre tutti puntano occhi e riflettori sui porti, si dà poca attenzione al lavoro di questi “militi ignoti” che inseguono chi scappa dai centri, per separare i buoni dai cattivi. E per liberare i profughi sbarcati che vengono sequestrati dai basisti dentro serre, appartamenti, tonnare abbandonate. In attesa di ricevere altri soldi dalle famiglie. La verità è la seguente: su 170 mila migranti sbarcati nel 2014, solo la metà ha chiesto asilo in Italia. Gli altri sono scappati, non si sa come. E i poliziotti non possono controllare che una piccola parte del passaggio dalla Libia. La loro storia, sintetizzata nei verbali, racconta solo un tassello del puzzle. Su cui ora aleggia la nuova paura dei libici, che hanno cominciato ad arrivare sulle nostre coste, senza chiedere soccorsi. A fare cosa, ancora non si sa.