Landini, l'ideologo che ha perso il treno
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Alla base del conflitto tra Matteo Renzi e Maurizio Landini c’è un rovesciamento delle parti.
di Giuliano Ferrara | 23 Febbraio 2015 ore 20:43 Foglio
Alla base del conflitto tra Matteo Renzi e Maurizio Landini c’è un rovesciamento delle parti. Renzi agisce come un sindacalista riformista, punta ai risultati, aumenta i salari di 80 euro, assume derrate di insegnanti, stabilisce nuove norme nel mercato del lavoro per includere il massimo numero possibile di soggetti a tempo indeterminato, si occupa di crisi aziendali e di settore, vanta gli investimenti possibili e i traguardi raggiunti dall’impresa, come la salvezza della Fiat e poi le assunzioni alla Fiat (Fca). Landini agisce come un politico massimalista, dei risultati se ne fotte, le vertenze non le chiude, compromessi non ne fa, predica in tv e in piazza politica pura e ideologia pura, purissima, indossa felpe come Matteo Salvini, euroscetticheggia, vuole la politica industriale, insegue il mito dell’eguaglianza come livellamento e non come eguaglianza di possibilità per tutti, non spende energie nello sforzo di creare con una strategia rivendicativa un blocco sociale per tutelare il salario e il posto di lavoro, valuta referendum, si sgola contro le soluzioni del governo riformista di sinistra, crea e poi agita nemici spettrali come Sergio Marchionne, tuona contro l’evasione fiscale e fa demagogia di vario ordine e grado tra gli applausi.
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Una volta era il contrario. Il politico di sinistra, massime quelli di tradizione comunista ma non solo loro, sorvegliava l’ortodossia ideologica e puniva le trasgressioni, badando a tenere a freno i sindacalisti come Giuseppe Di Vittorio, Agostino Novella, Luciano Lama. Questi sperimentavano nel corpo vivo della società, perfino in tempi di guerra fredda e di internazionalismo proletario facevano le loro Leopolde, proteggevano il valore della merce-lavoro negli interstizi del capitalismo, si disinteressavano dei ragionamenti troppo astratti sui modelli di sviluppo, sulle politiche industriali, sul controllo democratico degli invnestimenti, preferivano concentrarsi su contratti, quattrini e organizzazione del lavoro come fonti di diritto e non sui diritti come norme di tutela giuridica alla Rodotà-tà-tà, non aprivano vertenze se non erano sicuri di chiuderle in tempo e modo utile, cercavano l’alleanza dei lavoratori dipendenti da loro rappresentati con il ceto medio produttivo (così si diceva allora). Erano per queste ragioni sempre in sospetto di riformismo, in odore di eresia sociale, e la cinghia di trasmissione dal partito alla società – ché questa era la concezione classista tradizionale del sindacato –si stringeva come un cappio al collo quando varcavano certi confini dettati dall’ufficio politico.
Attaccato dal riformista Renzi, il sindacalista Landini ora dice che lui non fa politica ma vuole creare una coalizione sociale aperta a una nuova coalizione politica, cioè fa politica, letteralmente e indubitabilmente. Tutti gliene chiedono conto, anche perché dopo Pomigliano è arrivata la botta di Melfi: quando si sciopera, la Fiom finisce a secco di consenso e di sostegno da parte dei lavoratori, il che è imbarazzante, quanto meno. Landini non è una cattiva persona, ha un bel sorrisone televisivo, una voce che pare un megafono, argomenti puliti e spavaldi, se la prende con “le Leopolde e cazzate varie”, è vernacolare, sboccato al punto giusto, agitatore vocalizzante robusto, diverso in questo dal compassato e gelido Cofferati, uomo di ferro, dal sognatore e affabulatore Bertinotti, dai d’Antoni, dai Benvenuto, dai Del Turco e da molti altri che prima di lui hanno passato la frontiera tra sindacalismo e politica. Solo che, come abbiamo cercato di argomentare, il punto di partenza paradossale di Landini è la politica, con il contorno dell’ideologia, mentre quello del suo competitore Renzi è appunto una coalizione sociale aperta alla politica. Renzi ha già realizzato quello che vuole Landini. Non c’è posto.