Chi guarda in faccia il pericolo. L’approccio umanitario al caso Moro fu un’intuizione di Craxi
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L’unica voce fuori dal coro era quella del Partito Socialista, ricorda Claudio Martelli in “Mi sento abbandonato”
Claudio Martelli, 22-3-2025 linkiesta.it lettura 5’
Tratto da “Mi sento abbandonato. La vera storia della trattativa per salvare Aldo Moro” di Claudio Martelli (Solferino Libri), 18,50€, 272 pagine.
All’indomani del rapimento delle Brigate Rosse tutti i partiti parlavano di una necessaria fermezza dello Stato. L’unica voce fuori dal coro era quella del Partito Socialista, ricorda Claudio Martelli in “Mi sento abbandonato”
Per quel che so e per l’impressione diretta che ne ebbi, all’origine dell’approccio socialista al caso Moro, così diverso da quello degli altri partiti, ci fu un’intuizione di Craxi. Credo ne abbia parlato con altri socialisti come De Martino, Saragat, Signorile, sensibili alla salvezza di Moro e non solo alla ragion di Stato. Di sicuro, qualche tempo dopo la strage di via Fani, con la pubblicazione delle prime lettere di Moro, mentre s’inaspriva la campagna per “la fermezza dello Stato”, noi ci confermammo nella nostra naturale propensione umanitaria.
Fu Craxi, però, a renderla chiara e poi a tradurla in una proposta pratica. Innanzitutto si pose una domanda che era già un principio di contestazione dell’andazzo generale. Ricordo che eravamo a Torino per il Congresso nazionale del Psi e, mentre camminavamo, d’un tratto Bettino si fermò, mi guardò e disse: «Chi è in pericolo in questo momento? In pericolo c’è Moro, è lui che rischia la vita. Lo Stato è in pericolo? Mah, insomma, lo Stato ha superato tante prove difficili». Era tipico del suo modo di ragionare, insofferente ai cori ammaestrati, ed era la premessa di un atteggiamento socialista autonomo da quello della maggioranza di governo.
Prima che un’idea, fu una semplice constatazione. Quel genere di evidenze su cui poggia il buon senso che, come ci ha insegnato Alessandro Manzoni, è spesso all’opposto del senso comune. In effetti, subito dopo il sequestro e il primo violento e ricattatorio comunicato delle Br, era montato uno strepito, una rincorsa e un crescendo di invocazioni, di ammonizioni e di ingiunzioni non solo a non cedere all’attacco e al ricatto dei terroristi con le loro pretese, ma anche a indurire la risposta dello Stato: una reazione orientata da Andreotti, presidente del Consiglio, e da leader politici come Berlinguer, La Malfa, Almirante, nonché direttori di giornale come Scalfari, Montanelli, Di Bella. E così fu fatto, imponendo limiti alle libertà personali.
La Malfa e Almirante giunsero a chiedere la pena di morte per i terroristi e la Dc e Andreotti, che avevano appena sciolto la struttura anti-terrorismo di Dalla Chiesa, imposero misure di prevenzione e repressione: ispezioni, controlli stradali, alla circolazione e alla dimora, fermi, arresti e interrogatori, anche oltre le norme scritte e ai limiti della costituzionalità. Trattando i propri lettori come sprovveduti, i giornali si chiedevano se pubblicare o no i comunicati delle Br e poi le stesse lettere di Moro – molti scelsero una censura preventiva – mentre il ministero degli Interni costituì un’insolita unità di crisi, cui parteciparono anche presunti esperti stranieri, ubicandola chissà perché fuori dal Viminale, presso l’ex ministero della Marina Militare.
In seguito, negli anni delle commissioni di indagine parlamentare sul caso Moro, Cossiga, pur essendo a capo di quel ministero, dichiarò di non averne mai saputo nulla.
Forse più grave di tutte le altre, e foriera di conseguenze negative, fu un’altra decisione. Per tutti i cinquantacinque giorni del sequestro non furono mai convocati né il Senato né la Camera e neppure il Consiglio nazionale della Dc, cosicché la normale dialettica democratica venne contratta e ridotta ai comunicati del governo e dei segretari di partito. Di fatto fu sospesa la vita parlamentare e, con essa, il pubblico dibattito tra i partiti e il confronto dei loro argomenti.
Strana e pericolosa idea, quella che lo Stato si difenda sospendendo la vita e le regole della democrazia rappresentativa.
Mentre, tra il 1973 e il 1976, gli apparati di sicurezza guidati dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dal prefetto Emilio Santillo erano riusciti prima a contenere quindi a disarticolare le Br, catturando i capi Renato Curcio e Alberto Franceschini o uccidendoli come Mara Cagol e molti altri, i nuovi apparati (o perché non rodati o perché mal concepiti) non produssero analisi all’altezza della situazione, né tantomeno iniziative utili alle indagini, ma solo, come poi si vide, un gran numero di gravissimi errori, di omissioni e anche di depistaggi, celati e sovrastati dal clamore dei proclami e degli incitamenti a mostrare la fermezza dello Stato.
Lo stesso Craxi usò parole sferzanti, quando si seppe che la polizia aveva sì “bussato educatamente” alla porta di via Gradoli 8 – dove stavano nascosti i nuovi capi delle Br, Mario Moretti e Barbara Balzerani – ma non l’aveva sfondata.
In precedenza, l’indicazione di un covo brigatista ubicato a Gradoli fu interpretata non per quello che era – cioè una via di Roma – ma per quello che non era, uno sperduto villaggio del viterbese. Particolare curioso: le fonti della “soffiata” erano stati tre professori dell’Università di Bologna, tra i quali Romano Prodi, che riferirono di aver ricevuto il segnale nel corso di una seduta spiritica. Evidentemente volevano tutelare la loro fonte – un professore, uno studente, chissà – in possesso di un’informazione precisa e fondamentale, e che di certo sarebbe stato utile interrogare. Come mai tanta incapacità e impreparazione? Gli storici sottolineano due cause.
Da un lato le Br si erano di recente ristrutturate e, sotto la guida del nuovo capo Mario Moretti, anziché moltiplicare le “colonne” sul territorio per intensificare il reclutamento, avevano accentrato tutti poteri nella direzione strategica e, per essa, nelle mani del capo. Il prevalere della logica militare su quella politica, del golpismo sulla sedizione di massa, sembra replicare in sedicesimo la traiettoria di molte rivoluzioni, e in particolare di quella sovietica, con il passaggio dal leninismo-trotzkismo allo stalinismo. Sta di fatto che così riorganizzate dopo la crisi del 1974 conseguente alla cattura di Curcio e Franceschini, le Br guidate da Moretti rinascono come una malapianta velenosa e, nel biennio 1977-78, mettono a segno una mole impressionante di attentati, con un record di vittime soprattutto tra poliziotti e carabinieri, ma non mancarono politici, magistrati, giornalisti.
Viceversa, vengono smantellati i servizi di sicurezza e di intelligence dello Stato che tra il 1974 e il 1976 avevano inferto colpi durissimi ai terroristi, i loro metodi vengono abbandonati, i loro mezzi ridotti, i loro capi, Santillo e Dalla Chiesa, sostituiti. Gli storici attribuiscono la responsabilità al ministro degli Interni, Cossiga. In effetti, in spregio alla riforma appena varata, e con il governo delle astensioni dimissionario, Cossiga «emanò un decreto che istituiva un nuovo organismo, l’Ucigos», un ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali.
«Risultato? Dei seicento uomini del servizio di sicurezza, duecento rimasero alle scorte, mentre gli altri quattrocento furono assegnati in gran parte ad attività non informative, disperdendo così un importante patrimonio di conoscenze e di esperienze, che colpì i funzionari più validi». Difficile stabilire se una simile decisione sia stata frutto di un calcolo razionale e o di un impulso irrazionale. Sta di fatto che dal gennaio al giugno del 1978, e dunque anche per tutta la durata del sequestro Moro, i servizi di sicurezza non furono efficacemente operativi.