Scivolamento illiberale. L’Italia bipopulista è così ricettiva da essersi riallineata a Trump già prima della sua vittoria
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Non serve essere pessimisti per sapere che l’onda lunga del risultato elettorale americano avrà effetti molto nefasti sul nostro Paese (e sul peso internazionale di Giorgia Meloni)
30-11-2024 Francesco Cundari, linkiesta.it lettura5’
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L’Italia è sempre stata un Paese particolarmente ricettivo, diciamo così, per tutte le forme di populismo emergenti nel mondo. Forse anche perché questo è uno dei pochi campi in cui possiamo vantare un’esperienza di avanguardia. Come ha scritto Giuliano da Empoli, il nostro Paese è la Silicon Valley del populismo globale, capace di sperimentarne, sin dagli anni Novanta, praticamente ogni forma concepibile dalla mente umana, «dal populismo regionalista della Lega a quello giudiziario di Antonio Di Pietro, fino all’apoteosi catodica del populismo plutocratico del Cavaliere». Non c’è bisogno di essere naturalmente inclini al pessimismo per temere che questa volta l’onda lunga del risultato elettorale americano potrebbe avere effetti ancora più nefasti del solito.
Nel novembre del 2016, quando quella specie di Silvio Berlusconi sotto steroidi che risponde al nome di Donald Trump vinceva per la prima volta le elezioni per la Casa Bianca, a Palazzo Chigi c’era Matteo Renzi, a capo di una coalizione di governo dominata dal Partito democratico. Poco più di un anno dopo, con le elezioni del 2018, a Palazzo Chigi saliva Giuseppe Conte, alla guida di un governo M5s-Lega, in un Parlamento in cui il centrosinistra praticamente non esisteva più e il Pd sembrava destinato a restare schiacciato dal continuo gioco di sponda tra cinquestelle e centrodestra, come accadde regolarmente nella scelta di tutte le principali cariche istituzionali e di controllo, dai presidenti delle Camere fino ai questori. Ricorda niente? Appunto. Anche la complicata transizione dal governo gialloverde al governo giallorosso, dopo l’inattesa crisi del Papeete, avvenne all’insegna del nuovo equilibrio bipopulista. Di solito, in Italia e nel mondo, sono le maggioranze a cambiare i presidenti del Consiglio. Nel 2019, invece, è stato il presidente del Consiglio a cambiare maggioranza, con la benedizione di Trump, consacrata dal celebre tweet sull’amico Giuseppi, in cui lo definiva senza giri di parole «un uomo di grande talento che auspicabilmente resterà primo ministro».
Raramente nella storia del nostro Paese, che pure con il tema si è confrontato a lungo, si era visto un intervento pubblico più esplicito, da parte di un presidente americano, in una crisi di governo. Eppure in quel caso nessuno se ne mostrò particolarmente preoccupato, nemmeno tra i sempre numerosi appassionati del genere, tra i quali basta citare ad esempio l’autorevole esponente del Pd Goffredo Bettini e quanto scrisse proprio a proposito della successiva caduta di Conte, a suo giudizio vittima dell’ostilità americana. Vale a dire di una diabolica «convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli». Neanche fosse Salvador Allende. A dimostrazione di come alcuni antichi riflessi terzinternazionalisti, uniti a una certa indulgenza nei confronti dei populisti grillini, possano imprigionare una parte della sinistra in una dissonanza cognitiva dagli esiti surreali, fino al punto da non distinguere più i fascisti dagli antifascisti. Peggio: fino al punto da scambiare gli uni per gli altri.
Contrariamente ai fantasmi che negli ultimi tempi hanno tormentato questo genere di politici e intellettuali, c’è infatti da temere che la breve parentesi rappresentata dalla presidenza di Joe Biden in America, dal governo di Mario Draghi in Italia e dalla relativa tenuta della maggioranza Ppe-Pse alle recenti elezioni europee, lungi dal rappresentare il trionfo della dittatura atlantista-tecnocratica contro le masse operaie, passi alla storia proprio così: come una parentesi. Una breve parentesi progressista lungo la ripida discesa verso la democrazia illiberale di modello ungherese, per non dire di peggio. Una momentanea deviazione della storia dal corso inaugurato nel 2016. Il guaio peggiore, però, è che il viaggio non riprende affatto dal punto di partenza.
L’Italia, e l’Europa, che il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti si troverà davanti, infatti, saranno assai più vicine alle sue posizioni e ai suoi valori di quanto non lo fossero otto anni fa. Il che non è affatto detto che aiuti, né l’Europa né l’Italia, considerando le dichiarate intenzioni di Trump per quanto riguarda i dazi alle importazioni (potenzialmente dolorosissimi per l’Europa, e per l’Italia in particolare) e le spese militari (idem) in ambito Nato.
Per non parlare della minaccia ben più radicale rappresentata dal possibile disimpegno americano dall’Alleanza atlantica, a fronte della crescente aggressività russa, non solo contro l’Ucraina. Del resto proprio sull’Ucraina, o per meglio dire sulla pelle degli ucraini, era già cominciato a emergere il grande riallineamento populista dell’Italia e del suo sistema politico pressoché al completo, con il voto al Parlamento europeo sulla mozione che chiedeva di consentire loro di utilizzare le armi occidentali anche in territorio russo, vale a dire contro le basi da cui partono i missili che ogni giorno colpiscono le loro case, i loro ospedali, le loro scuole.
Il voto contrario dell’intera maggioranza di centrodestra e di gran parte dell’opposizione, in dissenso dai rispettivi partiti europei e in compagnia della sola Ungheria di Viktor Orbán, non dimostrava solo l’inconsistenza e il tatticismo della famosa svolta atlantista ed europeista di Giorgia Meloni. Era la dimostrazione di uno smottamento molto più ampio, morale prima ancora che politico, che trascinava con sé tutti i principali partiti del nostro Paese. Ma era soprattutto la reazione dei populisti italiani al richiamo di Trump, al suo semplice riaffacciarsi sulla scena, prima ancora che avesse vinto le elezioni.
Del resto, in questa Europa l’Italia populista ha trovato un aiuto insperato nella cinica spregiudicatezza di Ursula von der Leyen, che per ovvie ragioni, dovendo confrontarsi con il peso crescente dell’estrema destra in diversi Paesi europei, Germania compresa, preferiva aprire le porte della sua Commissione ai sovranisti italiani, sperando così da un lato di dividere il fronte populista e dall’altro di guadagnare maggiore autonomia per sé, secondo quella che nel nostro Paese si chiamava un tempo la politica dei due forni, mettendo nell’angolo (dopo averne incassato i voti) socialisti e verdi. Ma è da vedere se la vittoria di Trump e la prevedibile radicalizzazione di tutti i populisti europei non renderanno più difficile l’equilibrismo dei popolari e della stessa von der Leyen. E dunque anche il suo gioco di sponda con Meloni, che finora ne è stata la principale beneficiaria.
Di fronte a una crisi del progetto europeo, a un prevalere delle spinte disgregatrici rappresentate da Orbán, ormai sempre più scoperto e spudorato nel suo asse con Vladimir Putin da un lato e con Trump dall’altro, non è nemmeno detto che ci sarebbe ancora tutto questo bisogno di ruoli di cerniera come quello che Meloni sembra volersi ritagliare. Se si rompono le righe e ciascuno si muove per sé, la stessa linea di confine su cui la nostra presidente del Consiglio sta cercando di muoversi perde di significato. E se invece, come molti si augurano e pochi credono davvero, la minaccia esistenziale posta dalla sfida trumpiana suscitasse una reazione adeguata degli europeisti, consapevoli di non poter più tergiversare, e uno scatto in avanti del progetto di integrazione politico e istituzionale dell’Unione, forse quello spazio cesserebbe semplicemente di esistere.