Psicanalisi della sconfitta Per le sinistre non è il momento di esagerare con l’autocritica
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Se il futuro ci appare come un’infinita sfilza di catastrofi, dovrebbe consolarci sapere che raramente indoviniamo una previsione,
13.11.2024 Francesco Cundari linkiesta.it lettura3’
scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette
È difficile fare una classifica delle numerose conseguenze nefaste che la vittoria di Donald Trump ha già cominciato a far sentire nel nostro paese. Uno dei primi posti va certamente riservato all’ulteriore scadimento del dibattito pubblico, per via dell’effetto emulazione suscitato in soggetti già particolarmente predisposti, come il leader della Lega Matteo Salvini (penso al recente video contro le «zecche rosse») o la stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni (penso praticamente a tutto quello che ha detto negli ultimi due giorni).
Ma tra le più perniciose ripercussioni della vittoria trumpiana non trascurerei il ritorno di un antico rituale: l’eterna psicanalisi della sconfitta, con l’autocritica della sinistra, il processo ai dirigenti coi quali «non vinceremo mai» e tutti i luoghi comuni sul partito delle élite, la distanza dal popolo, il politicamente corretto.
Un copione imparato a memoria almeno dalla prima vittoria di Trump nel 2016, che tuttavia non spiega come mai quella stessa sinistra le elezioni successive, nel 2020, le abbia invece stravinte. È giusto riflettere sulle proprie sconfitte e sui propri errori, naturalmente, ma per capire e dire possibilmente qualcosa di nuovo, non per ripetere frasi fatte che erano già vecchie dieci anni fa. Insomma, non è il momento di farsi prendere dalla sconforto. Del resto, se il futuro ci appare come un’inarrestabile sfilza di catastrofi, dovrebbe consolarci sapere che raramente indoviniamo una previsione. Lo spiega sul New York Times lo psicologo Adam Grant: «Nella foga del momento, sovrastimiamo la nostra angoscia di oggi e sottovalutiamo la nostra capacità di adattarci domani».
Va detto che forse, nel suo tentativo di tirare su gli sconfortati elettori democratici, Grant si fa prendere un po’ la mano, ad esempio quando cita uno studio dello psicologo Philip Tetlock, che dopo avere valutato diversi decenni di previsioni su eventi politici ed economici sarebbe giunto alla seguente conclusione: «L’esperto medio era attendibile più o meno quanto uno scimpanzé che lancia freccette».
Non conosco lo studio, non ne metto in dubbio il valore e non discuto nemmeno la bellezza e l’efficacia dell’immagine, utilissimo antidoto contro la tracotanza degli esperti. Temo però che a percorrere fino in fondo questa strada, fino al punto cioè da sostenere che il parere degli studiosi valga come quello degli scimpanzè, torneremmo tutti quanti in brevissimo tempo a vivere esattamente come gli scimpanzè, e le prossime guerre culturali le combatteremmo tirandoci banane da un albero all’altro. Del resto, tra gli esempi per corroborare la sua tesi Grant cita anche il trattato di Versailles del 1919, e le potenze alleate che allora festeggiarono il ritorno della pace, senza accorgersi di avere «gettato i semi di un’altra guerra mondiale». Un caso in cui per essere onesti almeno un esperto – e che esperto – l’aveva detto subito come sarebbe andata a finire, e ci aveva scritto anche un libro (parlo ovviamente delle Conseguenze economiche della pace di John Maynard Keynes). Ma lo spirito dell’articolo mi pare comunque condivisibile. «La sconfitta politica è un esempio di ciò che gli psicologi chiamano perdita ambigua», spiega lo studioso americano. «Potremmo trovarci a piangere la morte delle nostre speranze e dei nostri sogni, ma è una cosa temporanea.
Dimentichiamo che, a differenza delle persone, i progetti possono essere resuscitati. Ciò era vero per i sostenitori di Trump nel 2020, e lo è per i democratici ora. Il dolore e la tristezza non sono mai permanenti. Evolvono nel tempo e, idealmente, ci aiutano a dare un senso, a trovare un significato e ad alimentare il cambiamento». Proprio per questo, aggiungerei, l’unica cosa che conta è che il gioco resti aperto, e dunque che si continui a giocare, affinché la rivincita sia sempre possibile. Motivo per cui la vittoria di Trump non deve gettarci nello sconforto, ma preoccuparci parecchio sì.