EU elettrico. L’ottobre da incubo del settore auto europeo: licenziamenti, fabbriche chiuse, vendite in calo. Ma perché l’automotive è così in crisi?

Il passaggio verso l'elettrico si sta rivelando più complesso del previsto. Ma le difficoltà del settore nascono ben prima dei regolamenti del Green Deal

03 Novembre 2024 - 06:51 Gianluca Brambilla, open.online lettura7’

Il settore dei trasporti, che nell’Unione europea impiega direttamente e indirettamente quattordici milioni di persone, è attraversato da una crisi come non se ne vedevano da decenni.

E tutto questo sta avvenendo proprio mentre il settore è chiamato a compiere un passaggio epocale, quello dal motore endotermico ai veicoli a batteria. «Abbiamo bisogno di un’azione urgente per invertire la tendenza al ribasso, ripristinare la competitività dell’industria Ue e ridurre le vulnerabilità strategiche», tuonava a settembre l’Acea, l’associazione che raduna i principali costruttori europei di automobili. Nell’ultimo mese, la situazione non è affatto migliorata. Anzi, semmai è accaduto esattamente il contrario.

L’ottobre da incubo dell’automotive europeo

Il 1° ottobre, Stellantis ha annunciato lo stop alla produzione della 500 elettrica allo stabilimento di Mirafiori, a Torino, almeno fino a novembre. Poche settimane più tardi, l’amministratore delegato Carlos Tavares è stato chiamato a riferire in parlamento, con le opposizioni che hanno invitato il governo a non sborsare più un centesimo per il colosso italo-francese. In Germania, Volkswagen potrebbe chiudere tre fabbriche e tagliare le buste paga per gli operai. Mentre Audi, che fa sempre parte del gruppo Volkswagen, ha annunciato la chiusura di uno stabilimento di auto elettriche a Bruxelles, in Belgio. Tutto questo mentre Northvolt, il più grande produttore europeo di batterie, naviga in cattive acque e ha annunciato il licenziamento del 20% della propria forza lavoro. Se si guarda a ciò che è accaduto sul versante politico, il quadro è altrettanto caotico. Alcuni governi europei, Italia in testa, hanno chiesto di anticipare dal 2026 al 2025 la revisione del regolamento del Green Deal europeo, che prevede – tra le altre cose – lo stop di nuove auto a benzina e diesel dal 2035. Nel frattempo, sono entrati in vigore i dazi europei sulle importazioni di veicoli elettrici dalla Cina.

L’annuncio di Volkswagen è un bluff?

Lo shock più grande si è verificato senz’altro in Germania, dove i comitati di fabbrica di Volkswagen hanno svelato l’intenzione da parte dell’azienda di chiudere tre stabilimenti e tagliare migliaia di posti di lavoro. «Il gruppo ha problemi di redditività. I profitti sono calati e l’azienda ha voluto mantenere i propri margini tagliando sui costi», spiega Lucio Baccaro del Max Planck Institute. La crisi in cui è piombata la casa automobilistica tedesca nasce in realtà in tempi relativamente recenti. Nel 2022 e 2023 le vendite di auto elettriche in Germania sono andate a gonfie vele. Poi una sentenza a sorpresa della Corte Costituzionale ha mandato all’aria la pianificazione del bilancio federale e costretto il governo di Olaf Scholz a tagliare gli incentivi per l’acquisto di veicoli a batteria.

«Il governo tedesco potrebbe pensare di reintrodurre gli incentivi ma ora come ora fa fatica a far quadrare i bilanci», osserva ancora Baccaro. Resta il fatto che i profitti di Volkswagen nel frattempo si sono ridotti, con l’azienda che è in procinto di tagliare drasticamente la propria forza lavoro. O almeno così sembrerebbe. «Non mi sorprenderei se alla fine non ci fosse nessuna chiusura degli stabilimenti. Potrebbe essere una strategia per spingere i sindacati, che chiedono aumenti salariali del 7%, verso la contrattazione concessiva», dice ancora l’esperto del Max Planck Institute. «Ci saranno pressioni enormi anche da parte della politica per arrivare a soluzioni diverse, per esempio una riduzione dell’orario di lavoro».

Il lento declino dell’automotive europeo

Per capire da dove arriva la crisi dell’automotive europeo è bene guardare ad alcuni dati. A livello mondiale, la produzione di veicoli è passata dai 58 milioni del 2000 agli 85 milioni del 2022. Tutto questo mentre le vetture prodotte nell’Unione europea e nell’area Nafta (ossia Stati Uniti, Canada e Messico) sono scese da 36 a 28 milioni. La produzione europea e americana, insomma, è scesa in termini assoluti e crollata in termini percentuali. A coprire la quasi totalità della nuova domanda di automobili è stata la Cina, la cui produzione è passata da 2 a 27 milioni di veicoli nel giro di appena due decenni. In termini percentuali, il paese guidato da Xi Jinping ha iniziato il nuovo millennio con una quota del 4% del mercato mondiale delle automobili ed è arrivato a controllarne il 32% (circa un terzo del totale).

Perché la crisi è scoppiata proprio adesso

La perdita di rilevanza dell’Europa nel mercato mondiale dell’auto inizia parecchi anni fa. Secondo Massimiliano Bienati, esperto di trasporti del think tank Ecco, la crisi dell’automotive «arriva da lontano e non si può mettere in relazione strumentalmente alla transizione verso l’elettrico». I dati incerti sulle vendite di veicoli a batteria nel 2024 hanno spinto le case automobilistiche europee a chiedere di rivedere i target previsti per il prossimo anno. Se i produttori non dimostrano di aver abbassato le proprie emissioni, rischiano di dover pagare multe piuttosto salate. E secondo Bienati, non è un caso che le difficoltà dell’automotive europeo siano emerse con forza proprio a ridosso di questa scadenza.

«I target del 2025 sono noti a tutti dal 2019 e si discutono dal 2017. L’industria dell’auto lo sapeva e la politica pure, ma si sono mossi lentamente e con strategie industriali che hanno sottostimato la crescita competitiva globale nel segmento dell’elettrico», osserva l’esperto. Per Bienati, la responsabilità della situazione va ricercata tanto nei produttori quanto nella politica: «Forse il governo tedesco ha agito con poca lungimiranza quando ha tagliato gli incentivi. Nel 2025 le case automobilistiche dovranno vendere ancora più auto elettriche per compensare il ritardo e può darsi che si decida di reinserire alcuni incentivi all’acquisto», fa notare l’esperto.

La transizione all’elettrico e le critiche del rapporto Draghi

Ma quanto (e come) incide davvero la transizione all’elettrico nella crisi che sta attraversando il settore auto? La direzione intrapresa dall’Europa è in realtà la stessa in cui si sta muovendo anche tutto il resto del mondo: dalla Cina, diventata leader indiscussa dei veicoli a batteria, agli Stati Uniti, che sotto la presidenza di Joe Biden hanno puntato con decisione sulla transizione del settore verso auto meno inquinanti. L’Unione europea è stata ancora più ambiziosa e ha decretato lo stop alla vendita di nuove auto a benzina e diesel a partire dal 2035. Eppure, il percorso per arrivare a quell’obiettivo si sta rivelando più tortuoso del previsto, come evidenziato anche da Mario Draghi nel suo report sulla competitività europea.

«Il settore automobilistico è un esempio chiave della mancanza di pianificazione dell’Ue, che applica una politica climatica senza una politica industriale», scrive l’ex premier italiano senza troppi giri di parole. «L’ambizioso obiettivo di zero emissioni allo scarico entro il 2035 – continua Draghi – porterà di fatto a un’eliminazione graduale delle nuove immatricolazioni di veicoli con motori a combustione interna. Tuttavia, l’Ue non ha dato seguito a queste ambizioni con una spinta sincronizzata per convertire la catena di fornitura». Secondo Draghi, insomma, il problema non è la transizione verso l’elettrico in sé, ma il fatto che sia stata portata avanti senza una politica industriale in grado di convertire l’intera filiera produttiva.

La scomparsa delle utilitarie e i dazi alla Cina

Ma c’è un ulteriore elemento che sta rendendo il percorso dell’Europa più complicato del previsto: la progressiva scomparsa delle auto di piccole dimensioni e a prezzi più accessibili. Lo ha sottolineato in un intervento – riportato da Stefano Feltri su Appunti – Francesco Zirpoli, professore di Economia della Cà Foscari di Venezia e direttore dell’Osservatorio sulle trasformazioni dell’ecosistema automotive italiano (Otea). La sua tesi sembra trovare riscontro anche nei dati delle vendite. Dal 2001 al 2021, la quota di mercato dei marchi premium (Mercedes, Bmw, Audi, Volvo) è cresciuta del 50%. Nello stesso periodo di tempo, i produttori generalisti (Renault, Peugeot, Citroen, Fiat, Ford, Opel, Toyota, Nissan, Hyundai, Kia) hanno perso il 20% della quota di mercato. E tutto questo mentre il prezzo medio dei veicoli venduti in Europa è aumentato del 66% nel giro di vent’anni, una percentuale quasi doppia rispetto al tasso di inflazione (+38% dal 2000 al 2021).

«L’elettrificazione per come è stata finora concepita in Europa non contrasta questa deriva verso l’alto portando con sé lo sviluppo di veicoli costosi e pesanti», ha detto Zirpoli nel suo intervento. Questo ha favorito alcuni produttori europei, nello specifico quelli dei segmenti premium, ma ha ridotto fortemente l’offerta di veicoli piccoli ed economici. Una situazione che con i dazi sulle importazioni di auto elettriche dalla Cina rischia addirittura di peggiorare. «I dazi potrebbero concedere un po’ di tempo ai produttori europei per colmare il gap competitivo. Quello che è certo è che avranno l’effetto di privare i consumatori europei di veicoli elettrici a buon mercato e performanti», osserva ancora Zirpoli.

L’obiettivo del 2035

L’obiettivo di medio termine per tutto l’automotive europeo resta quello del 2035, data a partire dalla quale non si potranno più produrre veicoli a benzina e diesel. Per Zirpoli si tratta di una misura «del tutto giustificata sia per motivi ambientali sia industriali», mentre Bienati parla di «target immodificabile, perché ha dato un segnale chiaro a tutto il mondo». D’altra parte, nemmeno i costruttori europei hanno mai chiesto apertamente di posticipare quella scadenza. Le loro richieste, piuttosto, si sono concentrate sui target intermedi del 2025. A chiedere modifiche più radicali del regolamento europeo sono soprattutto alcuni governi, a partire da quello italiano. «Le richieste di revisione dei target avanzate, ad esempio, dall’Italia non solo hanno poca probabilità di essere accolte ma rischiano di introdurre un fattore di notevole ulteriore incertezza a detrimento delle esigenze di stabilità normativa che necessaria ai produttori e ai consumatori per operare le loro scelte», osserva ancora il professore della Ca’ Foscari di Venezia.

 

Il governo italiano taglia i fondi, l’Ue prepara il Clean Industrial Deal

Ora che la crisi del settore è venuta a galla, tutti gli occhi sono puntati sul Clean Industrial Deal, il maxi-piano di investimenti annunciato dalla nuova Commissione europea di Ursula von der Leyen. L’esecutivo comunitario ha assicurato che presenterà, entro i primi cento giorni dall’inizio del mandato, una strategia per rilanciare la competitività industriale del Vecchio Continente e stimolare la produzione delle clean tech, ossia le tecnologie pulite della transizione ecologica ed energetica. Una delle questione più scottanti riguarda il nodo dei finanziamenti, con i 27 Paesi Ue che con ogni probabilità saranno a chiamati a discutere della possibilità di emettere nuovo debito comune – come già avvenuto con il Next Generation Eu – per finanziare i provvedimenti del Green Deal. E nel frattempo anche in Italia si discute di soldi. Soprattutto dopo la decisione del governo Meloni di tagliare l’80% dei fondi destinati al settore auto e spostarli sulle spese per la Difesa. Secondo Bienati, questa decisione rappresenta «un altro segnale negativo ai mercati e di non allineamento con le politiche europee», che «sicuramente metterà in difficoltà l’Italia quando si dovrà discutere di come organizzare il Clean Industrial Deal».

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata