C'era una volta il boom economico. In Italia niente riscatto sociale: se nasci povero rimani povero.

Cosa dicono i numeri. Perché non bisogna sorprendersi se i giovani laureati non accettano stipendi bassi e preferiscono scappare dall’Italia

Antonio Mastrapasqua 30.10. 2024 alle 18:30 ilriformista.it lett4’

È il fenomeno noto come “trasmissione inter-generazionale degli svantaggi” economici. Fuori dal “sociologhese” si traduce in “ascensore sociale bloccato”; cioè chi nasce povero resta povero tutta la vita. Il dinamismo che ha fatto il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso sembra destinato a essere un ricordo per l’Italia e per gli italiani. Almeno nei dati diffusi da Eurostat. Una premessa è necessaria e obbligatoria: gli indicatori statistici sono tanto più vicini al vero, quanto sono capaci di intercettare la realtà e trasformarla in dato. In un Paese, come l’Italia, dove l’economia “nera” è assai diffusa (200 miliardi di evasione all’anno?) si rischia di restituire una immagine distorta.

I poveri in Italia

Resta la necessità di riflettere sui numeri: la povertà in Italia non solo è al suo massimo storico (5,7 milioni di persone, di cui 1,3 milioni di minori) ma persiste tra le generazioni. Si eredita, meglio e più dei patrimoni. Il riscatto sociale non si innesca dalle nostre parti. Secondo Eurostat peggio di noi, in Europa, fanno solo Bulgaria e Romania nella graduatoria dei Paesi che registrano adulti tra 25 e 59 anni in condizioni di bisogno, come quando avevano 14 anni. Nella media Ue si tratta del 20% della popolazione adulta, il 48% in Bulgaria, il 42% in Romania, il 34% in Italia, nel 2023. Era il 31% prima del Covid, cioè nel 2020. Poveri da bambini e ragazzi. Poveri da grandi.

L’ascensore sociale

Tutti i fenomeni complessi richiedono analisi complesse, al di là del “titolo” che riescono a strappare su un giornale. E il blocco dell’ascensore sociale in Italia somiglia all’erosione di quel ceto medio che si è progressivamente manifestato, anche in tante altre economie occidentali. Chi è ricco diventa più ricco; chi è povero diventa più povero. Certamente nel nostro Paese – oltre all’opacizzazione prodotta dal lavoro nero e dall’economia sommersa – scontiamo una progressiva sclerotizzazione dei rapporti sociali ed economici, oltre a un deficit di istruzione e formazione di base e specifica. Il rischio di povertà è più alto per quei bambini che hanno mamma e papà con un titolo di studio più basso, rispetto ai coetanei oggi adulti che in tenera età avevano genitori con una laurea o addirittura un master post-universitario. “Nella maggior parte dell’Ue – rileva Eurostat – nel 2023 il tasso di rischio di povertà per le persone di età compresa tra 25 e 59 anni era inferiore di 10,6 punti percentuali per coloro i cui genitori avevano un livello di istruzione superiore (8,5 per cento) rispetto a coloro i cui genitori avevano un livello di istruzione inferiore (19,1 per cento)”.

Perché non bisogna sorprendersi se i giovani laureati non accettano stipendi bassi e preferiscono scappare dall’Italia

Se l’istruzione mancata è un grande freno sociale, bisogna considerare la feroce ostilità che il nostro Paese ha riservato alla meritocrazia. “Meritocrazia è un sistema di valori che valorizza l’eccellenza indipendentemente dalla provenienza, dove “provenienza” indica un’etnia, un partito politico, l’essere uomo o donna; in Italia “provenienza” significa soprattutto la famiglia di origine” ricordava Roger Abravanel, uno dei “guru” storici di McKinsey Italia, in un suo saggio di ormai quindici anni fa (intitolato proprio “Meritocrazia”). E se meritocrazia “vuol dire impegnarsi a non disperdere i propri talenti; agire per togliere tutti quei lacci che impediscono al merito dei singoli di esprimersi nella sua pienezza” possiamo dire con sicurezza e con tristezza che la società italiana non è meritocratica. Lo sa chi gestisce le risorse umane in una impresa, piccola o grande che sia. Non parliamo della Pubblica Amministrazione, dove il merito si distribuisce attraverso gli accordi sindacali. Ma questo egualitarismo malinteso si sta affermando sempre più spesso anche in ambito privato: è uno dei frutti della sindacalizzazione, che tanto bene ha fatto alla estensione dei diritti, ma tanto male sta facendo nel mancato rilancio dei doveri e delle opportunità.

Paura del profitto

È impossibile contrattare il meglio, è doveroso estendere il “minimo”, ma dovrebbe essere possibile se non auspicabile lasciare la libertà ai migliori di manifestarsi “al meglio”. Dispiacersi che l’ascensore sociale si è rotto, senza avere l’onestà intellettuale di vedere chi lo ha sabotato – consapevolmente o meno – è il solito pianto del coccodrillo. L’ascensore sociale funziona con l’energia della produttività. Se da decenni l’Italia è in fondo alle classifiche sulla produttività non c’è da stupirsi che si sia ritrovata in analoghe posizioni laddove si vanno a misurare le dinamiche sociali, le capacità di trasformare un “problema in una opportunità”, soprattutto a livello personale e individuale.

L’Italia vanta tanti campioni dell’impresa che hanno generato ricchezza partendo da una condizione familiare debole o addirittura inesistente. La parabola di Leonardo Del Vecchio – da “martinitt”, cioè orfano di entrambi i genitori, a campione dell’industria italiana – è stata celebrata tante volte, ma come la sua tante altre storie di successo avrebbero potuto generare una cultura sociale meno ostile al profitto. L’Italia è un Paese che invece continua ad avere paura della parola “profitto”: le imprese profittevoli sono accettate solo se “in cambio” fanno beneficenza. Ma senza produzione di ricchezza (profitto) non c’è redistribuzione e non si genera quell’energia che possa trainare l’ascensore sociale e chi lo vuole (o lo vorrebbe) prendere.

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